Il prete figlio del boss in carcere e la prima omelia contro i giudici

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ISOLA CAPO RIZZUTO (Crotone) — Ha parlato da figlio «e non da prete», giura adesso con la voce mansueta, quella voce da bravo ragazzo molto amato in paese. Che quasi non sembra la stessa voce con cui, alla fine dell’omelia di domenica scorsa, ha tuonato contro la giustizia terrena dal pulpito del duomo di Isola Capo Rizzuto, sedicimila anime nel Crotonese. Il papà , Romolo Scerbo, sta dentro da tre anni per estorsione «aggravata da metodi mafiosi» (condanna a cinque anni e mezzo, confermata in secondo grado). E lui, don Vincenzo, ordinato sacerdote ventiquattr’ore prima, proprio non ce l’ha fatta a contenersi.
Vuoi l’emozione, vuoi la nostalgia, vuoi magari un certo codice genetico pur sempre ereditato da una famiglia che i rapporti di polizia accostano alla cosca egemone degli Arena, s’è lanciato in una filippica appassionata davanti ai concittadini, al suo parroco, al sindaco con tanto di fascia tricolore. «Una parte del mio cuore viaggia lontano da questo luogo, attraversa i muri e le sbarre del carcere di Siano per accostarsi al cuore di mio padre!», ha ammonito. E non ha avuto remore, il giovane pretino, nel trascinare pure l’Altissimo in questa curiosa forma di privatizzazione delle sacre liturgie a vantaggio di faccende molto personali: «Elevo gravida di dolore la mia preghiera a Dio perché la sua giustizia intervenga là  dove la giustizia di questo mondo ha mostrato tutta la sua meschinità  e la sua grettezza, guidata da logiche di parte e verità  di comodo». «Uno sfogo», dice, adesso ricondotto all’ovile, il buon don Vincenzo, senza però arretrare d’un millimetro dalla sua fedeltà  filiale: «Non è questione di stabilire se ridirei o no quello che ho detto. Il punto è che mio padre è innocente, stop. Tutti piangevano per lui in chiesa mentre parlavo, altro che scandalo, altro che sconcerto. Qui tutti ci conosciamo, tutti sanno che lui è pulito».
Già . Il contesto dove tutti sanno. Quello non è mai indifferente, per capire. Il nonno di don Vincenzo, pure lui Vincenzo, sorvegliato speciale e accusato di associazione per delinquere, fu ammazzato il 26 aprile ’91, mentre badava alla guardiania del villaggio turistico Tucano. Posticino ambito il villaggio turistico. L’operazione Tucano e il blitz contro gli Arena del giugno 2009 prende le mosse da lì. Anche gli ultimi guai di papà  Romolo (e dei suoi fratelli implicati nella stessa indagine) vengono da lì, dalla protezione vera o presunta imposta sul comprensorio col placet dei capimafia. Conta il contesto, e tutti — davvero — sanno. Qui, a Isola Capo Rizzuto, le intimidazioni contro gli amministratori pubblici sono abituali e non molto dissimili da quelle che hanno portato sulle prime pagine dei giornali Maria Carmela Lanzetta, tostissima sindaca di Monasterace. Anche qui il municipio è rosa e di centrosinistra e anche qui la sindaca, Carolina Girasole, tiene duro: «Beh, pochi mesi fa hanno bruciato il portone del comune, mi arrivano regolarmente minacce di morte per posta, ci sono cose più gravi di quelle parole in duomo, ogni giorno, e nessuno se ne occupa».
La banalità  della mafia, certo, che smette diabolicamente di fare notizia. Ma un’invocazione come quella di don Vincenzo è sopportabile? «Il ragazzo ha 26 anni, ha fatto un percorso da una famiglia difficile. Ha capito. L’ho conosciuto che raccoglieva fondi per i poveri in Brasile. Io non ho voluto intervenire, domenica ero spettatrice: è una faccenda interna alla Chiesa», conclude la sindaca. E forse ha torto, sul punto: perché se è vero che il parroco, don Edoardo, ha subito tirato le orecchie al suo pretino, è altrettanto chiaro che è difficile contenere entro le mura del duomo o della parrocchia di Maria Assunta una questione che interpella tutti.
Don Vincenzo, forse per riflesso condizionato, prende a calci l’impegno antimafia di una Chiesa che, dai tempi della «Sagunto espugnata» nella Palermo del cardinale Pappalardo e arrivando fino al cardinale Sepe con la «scomunica» dei camorristi napoletani, ha sempre saputo quanto per picciotti e coppole storte le parole dei ministri di Dio siano importanti e temibili, specie se pronunciate da un pulpito.
Sicché, espugnando quel pulpito, diventa una specie di involontario eroe eponimo di un’Italia dove ciascuno arraffa ciò che di pubblico ha a portata di mano, piegandolo a uso personale. Banfield descriveva il familismo amorale nella Lucania degli anni Cinquanta, il nostro tenero pretino lo aggiorna in salsa noir. «Mio nonno è stato ucciso ventuno anni fa, non hanno mai preso gli assassini. Le pare che io possa stare con la ‘ndrangheta?», protesta adesso, senza perdere un decibel di dolcezza dalla voce. Nessuno lo sostiene, certo. Ma troppi hanno tradotto il suo appello in un anatema «contro i giudici meschini». E non è un bell’affare. «Senta, ero appena diventato sacerdote, era il giorno più gioioso della mia vita, come un matrimonio per voi, e mio padre non era accanto a me. Può capirmi?». Stando alle accuse, quando il nonno venne ammazzato, papà  Romolo e gli zii si presentarono al Tucano dicendo più o meno: «Abbiamo perso nostro padre qui dentro, ormai ci siamo noi, ci tocca». Il piccolo don Vincenzo aveva cinque anni e un futuro già  pieno di passato.


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