Il modello tedesco del riformismo

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Il nominalismo, in queste fasi, contrappone ogni giudizio al suo contrario, lo scontento per la soluzione imboccata va di pari passo con la speranza che i ceti, appena affacciati al governare, sappiano raccogliere le speranze dei più.
In siffatti travagli si sperdono le capacità  del giudicare e dell’agire empirico preferendo farsi trascinare dall’ideologia, come chiave esplicativa delle cose del mondo. Così oggi l’icona elegante di Mario Monti è soggetta a molteplici letture: ultimo campione della destra liberista, fortunosamente evocato dal presidente della Repubblica per riparare alle rovine di un regime populista, ormai incapace di reggersi sui propri piedi? Oppure via d’uscita delle sinistre per sgambettare un Berlusconi altrimenti intramontabile? Di qui lodi ed accuse in alternanza: parla a nome dei banchieri internazionali oppure dei disastrati interessi nazionali che è stato chiamato a salvare? Quanto all’uomo in questione si affida al sarcasmo icastico delle piccole frasi, dietro cui s’intravedono le rigidità  di un integralismo accademico, smorzato da una congrua riserva di realpolitik. Impacci e doti che si sono alternati negli ultimi giorni attorno alla vicenda tormentata del possibile reintegro per il licenziamento economico in base all’articolo 18. Comprensibile la soddisfazione per la felice conclusione ma altrettanto assennata l’avvertenza del nostro Massimo Giannini a non caricare di eccessiva enfasi storica una via d’uscita che il buonsenso suggeriva. Bastava liberarla dallo sciocchezzaio ideologico che ne impediva la chiara percezione. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (la Legge 300 del 1970), infatti, né introduce né impedisce alcun licenziamento. La materia in questione era già  disciplinata da una legge del 1966 che dispone l’inefficacia di un licenziamento senza giusta causa e la nullità  di quello discriminatorio, stabilendo il diritto del lavoratore al ricorso all’Autorità  giudiziaria. L’articolo 18, invece, introduce nei casi stabiliti dalla legge precedente, il principio del reintegro nel posto di lavoro. Intorno alle norme e ai casi che ne derivano si è combattuto in un infinito tira e molla per anni. Infine con l’avvento di Monti e Fornero si raggiunse un parziale equilibrio: gli esiti finali, a seconda dei casi (giusta causa, giustificato motivo, discriminazione, ecc.) sarebbero stati risolti dal giudice o con il reintegro o con il risarcimento in diversa misura. Un solo caso restava inopinatamente fuori: il licenziamento per cause economiche che aveva come unica sanatoria un diritto di buonuscita. Le proteste per l’eccezione ci sembrarono assolutamente valide. Perché, se la motivazione apportata dall’impresa appariva infondata, essa, a differenza di tutti gli altri casi, non doveva dar diritto al reintegro? Non si rasentava in tal modo addirittura una inadempienza costituzionale? Si può forse presumere che il governo volesse sancire con questo caso il principio che le leggi, una volta presentate e illustrate ai sindacati, vadano in sede definitiva approvate dal Parlamento e non da altri soggetti. È questo un dettame rispettabile del liberalismo e della separazione dei poteri, che, peraltro, la costituzione materiale, dagli anni Cinquanta in poi, aveva sacrificato in nome della coesione sociale, nata col suggello cattolico-comunista, fatto proprio dagli eredi. Toccarlo, come si è visto, non era cosa da poco. 
Peraltro il caso è talmente specifico da ricadere in quello che gli inglesi chiamano common sense, cioè senso comune, considerato una delle fondamentali basi empiriche del diritto non scritto britannico. Or bene, nella vicenda della clausola economica dell’articolo 18, va tenuto presente che il licenziamento dovrebbe colpire una sola persona, non un reparto, una linea produttiva o altro. Come stabilire che quel singolo rappresenterebbe un danno oggettivo da rimuovere per ristabilire un normale funzionamento produttivo? Forse risulta ormai inservibile quel montatore, quel fresatore, quell’addetto al computer? D’altra parte non si potrebbe spostarlo? Può essere, ma va oggettivamente provato, con le normali garanzie giuridiche. Un sospetto, venato di perplessità , mi è sorto da una discussione con una autorevole e stimata economista, vicina alla Fornero, che mi ha fatto presente come sia facile misurare la differenza di produttività  fra un ultracinquantenne e un giovane. Di qui l’oggettività  del licenziamento. Ho trovato inaccettabile moralmente e giuridicamente l’idea stessa di una penalizzazione economica della anzianità , che, ove si presentasse sotto mentite spoglie, andrebbe cassata d’ufficio dal giudice. Epperò questa incidentale discussione, proprio perché in buona fede, non mi sembra inutile. 
Essa prova come l’ideologia della deregolamentazione ad oltranza, oltre a devastare l’universo finanziario, abbia inaridito il pensiero economico, spogliandolo da ogni coefficiente etico e riducendolo a formula matematica, dove l’uomo, la sua vita, le sue attese, le sue tante paure e le residue speranze non abitano più. Uno sperdimento nell’inconscio reazionario, come se qualcuno, con qualche secolo di ritardo, si stesse reincarnando in un vecchio padrone delle ferriere senza neanche accorgersene.
Ma da ultimo vorrei cogliere un importante lascito positivo della discussione sull’articolo 18, quello che si riferisce all’inopinato accoglimento da parte della segreteria della Cgil del “modello tedesco”. Non vorremmo con ciò dilatare oltre il lecito l’affermazione di Susanna Camusso che sicuramente voleva riferirsi al precedente tedesco del reintegro deciso dal giudice nel caso di un licenziamento economico, ritenuto invalido. Asserzione importante ma parziale nei confronti del significato globale del “modello tedesco”. Questo è articolato su due pilastri, il primo è il Congresso di Bad Godesberg del 1958 in cui il partito socialdemocratico (Spd) proclamò il distacco dal marxismo ed avviò quella “economia sociale di mercato” o “modello renano”, che costituirà  la base ideale e pratica del riformismo europeo e la premessa per l’alternanza della sinistra democratica al governo della Germania. Bad Godesberg era stata preceduta, però, da una riforma anche più incisiva, l’introduzione della Mitbestimmung (cogestione in azienda), una serie di leggi varate dalla Repubblica di Weimar negli anni Venti, che sanciscono il diritto-dovere del sindacato a partecipare a livello aziendale alla gestione dell’economia in nome dell’interesse comune. Abrogata dal nazismo la Cogestione viene reintrodotta dagli eserciti alleati e, quindi, nel 1951-52, dal padre della nuova democrazia, Konrad Adenauer, che, col consenso pieno della Spd, la impose ovunque. 
La fortuna della Mitbestimmung si spiega nell’aver reso compatibili le più avanzate rivendicazioni salariali e normative con gli equilibri economici settoriali e aziendali, in una dialettica declinata non sui paradigmi della lotta di classe ma sui calcoli macro economici di gruppi di “saggi” delle due parti, che studiano e prevedono i confini predettati dalle attese d’inflazione, entro cui flettere le rivendicazioni. Così le fasi di crisi, come quella del 2008, vengono affrontate assieme: i sindacati accettano riduzioni di salario e di orario e gli imprenditori s’impegnano a non delocalizzare le fabbriche. Quando le cose andranno meglio i salari saranno i più alti d’Europa e l’export tirerà  l’economia. La paura dell’inflazione, terrificante retaggio storico, incide anche psicologicamente sulle scelte politiche dell’oggi. Tornando al discorso di partenza sarebbe davvero auspicabile se la casuale apertura della Cgil sul “modello tedesco” si allargasse a un nuovo discorso del riformismo italiano, capace di confrontare i propri risultati con quelli dei confratelli d’Oltralpe, lasciando finalmente alle spalle il magazzino di oggetti in disuso della lotta di classe e delle sue logore bandiere da sventolare quasi sempre sulle sconfitte.


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