Riforma Fornero: le nuove regole

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ROMA — Una riforma ambiziosa, con l’obiettivo, come dice l’articolo 1 dei 70 che compongono il disegno di legge, di «realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità  e qualità , alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione». Traguardi così ambiziosi che lo stesso articolo prevede un «monitoraggio» e una «valutazione» della riforma da parte del ministero del Lavoro che dovrà  produrre su questo un rapporto annuale. 
Le nuove regole, dice l’articolo 2, «costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni», quindi la riforma del mercato del lavoro vale anche per loro, ma attraverso provvedimenti applicativi che definiranno «gli ambiti, le modalità  e i tempi di armonizzazione della disciplina». A questo fine il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, presenterà  una norma delega da inserire nel disegno di legge durante l’iter parlamentare.
La riforma, in estrema sintesi, da un lato dà  una stretta alla flessibilità  in entrata, rendendo più costosi i contratti a termine e punendo gli abusi sulle collaborazioni a progetto, il lavoro a chiamata, le associazioni in partecipazione e le partite Iva, e dall’altro aumenta la flessibilità  in uscita, intaccando il tabù dell’articolo 18. I licenziamenti illegittimi non saranno più puniti con il reintegro (tranne quelli discriminatori dove non cambia nulla), ma il giudice deciderà  tra indennizzo e reintegro. E sui licenziamenti economici che non siano manifestamente insussistenti e non rientrino in altre categorie (disciplinari o discriminatori) ci sarà  solo l’indennizzo. Nell’ultimo tira e molla il Pd ha ottenuto la possibilità  del reintegro qualora per il giudice il motivo economico sia manifestamente insussistente. In cambio il governo ha ridotto il tetto dell’indennizzo da 27 a 24 mensilità  e ha allentato la stretta sulla flessibilità  in entrata, stabilendo che la sanzione che punisce gli abusi con l’obbligo dell’assunzione a tempo indeterminato scatterà  solo tra un anno. Completa la riforma un sistema di ammortizzatori meno assistenziale e tendenzialmente più universale, finanziato con 1,8 miliardi l’anno, e una norma contro le dimissioni in bianco imposte alle lavoratrici.

Contratti / Un nuovo apprendistato, il prelievo sui subordinati sale a quota 33%
ROMA — Il contratto «dominante» dovrà  essere quello a tempo indeterminato che inizia con l’apprendistato, spiega il ministro del Lavoro Elsa Fornero. L’obiettivo è ambizioso se si pensa che oggi quasi l’80% dei giovani viene assunto a tempo determinato e che solo il 15% ha un contratto di apprendistato. Come si può allora raggiungere il risultato voluto dal governo? La riforma punta su 4 leve: rendere più costosi i contratti a termine; premiare la stabilizzazione degli stessi; punire gli abusi sui contratti più precarizzanti; facilitare i licenziamenti, in particolare per motivi economici, cosicché il contratto dominante non sia percepito dalle imprese come permanente e indissolubile come è accaduto finora con l’articolo 18. La scommessa, insomma, è che attraverso la stretta sulla flessibilità  in entrata e una relativa maggiore facilità  di licenziamento si arrivi a un aumento delle assunzioni a tempo indeterminato, passando appunto per la fase iniziale dell’apprendistato. Quest’ultimo è già  stato riformato dal governo Berlusconi. Il disegno di legge aggiunge che questo tipo di contratto, particolarmente vantaggioso per le aziende, potrà  essere stipulato solo se precedentemente lo stesso datore di lavoro ha stabilizzato il 50% degli apprendisti. Questa soglia sarà  però del 30% nei primi tre anni dopo l’entrata in vigore della riforma.
Restano le varie tipologie di contratto temporaneo. Innanzitutto il contratto a termine. Che da un lato viene penalizzato con un’aliquota aggiuntiva dell’1,4%, che concorrerà  a finanziare la nuova indennità  di disoccupazione (Aspi), e dall’altro viene liberato dal «causalone», cioè dall’obbligo di indicarne il motivo, almeno in sede di primo contratto. Inoltre l’aliquota dell’1,4% può essere recuperata dall’azienda (ma fino a un massimo di 6 mesi) se il contratto viene trasformato a tempo indeterminato. Importante, ai fini di combattere la successione infinita di contratti a termine, il fatto che l’intervallo fra un contratto e l’altro viene aumentato da 10 a 60 giorni per quelli che durano meno di sei mesi e da 20 a 90 giorni per quelli di durata superiore. 
Il contratto di inserimento viene cancellato. Nel part time, a certe condizioni, il lavoratore potrà  chiedere l’eliminazione delle clausole elastiche sull’orario d’impiego. Sul job on call scatta l’obbligo per l’azienda di comunicare alla direzione territoriale del lavoro ogni chiamata del lavoratore. Sulle collaborazioni a progetto viene eliminata la categoria del «programma di lavoro o fase di esso». C’è una definizione più stringente del progetto, con la limitazione a mansioni non solo esecutive o ripetitive. Se il progetto manca, il contratto diventa a tempo indeterminato. L’aliquota contributiva previdenziale aumenta di un punto l’anno fino a raggiungere nel 2018 il 33%. 
Le partite Iva che nascondono un lavoro subordinato sono sanzionate con l’obbligo di assunzione. Ma questa norma si applicherà  non subito, ma dopo un anno dall’entrata in vigore della legge. Stretta anche sui voucher (lavoro accessorio). Quella sui tirocini arriverà  invece con una delle tre deleghe previste dalla riforma. Le altre due riguardano le politiche di ricollocamento e l’apprendimento permanente. (E.M.)

Ammortizzatori / Addio alla mobilità , l’assicurazione fino a 1.119 euro al mese
Dovrebbero valere 1,8 miliardi le risorse per i nuovi ammortizzatori sociali. Aiuteranno a coprire l’Aspi (la nuova assicurazione sociale per l’impiego) e il mini Aspi. Sono questi alcuni dei punti decisi del governo, che ha appena lanciato la riforma del lavoro che ora passa all’esame del Parlamento.
La nuova assicurazione sociale per l’impiego è destinata a sostituire a regime, nel 2017, l’indennità  di mobilità  e le varie indennità  di disoccupazione. Ne potranno usufruire i lavoratori dipendenti, ma anche gli apprendisti e gli artisti purché possano contare su due anni di anzianità  assicurativa e 52 settimane di lavoro nell’ultimo biennio. Sarà  pari al 75% della retribuzione fino a 1.150 euro e al 25% oltre questa soglia, per un tetto massimo di 1.119 euro lordi al mese.
È prevista una fase transitoria per il passaggio del periodo dagli 8 mesi attuali (12 per gli over 50) ai 12 dell’Aspi (18 per gli over 55). La contribuzione è estesa a tutti i lavoratori che rientrino nell’ambito di applicazione dell’indennità . L’aliquota corrisponde a quella attuale per i lavoratori a tempo indeterminato (1,3%) ma sarà  gravata di un ulteriore 1,4% per i lavoratori a termine (da restituire in caso di stabilizzazione del contratto fino a un massimo di sei mesi). Andrà  a regime nel 2013.
E il datore di lavoro, all’atto del licenziamento, dovrà  versare all’Inps mezza mensilità  ogni 12 mensilità  di anzianità  aziendale negli ultimi tre anni.
Per quanto riguarda la cassa integrazione, la politica di eliminare dal 2014 i casi in cui la cig straordinaria copre esigenze non connesse alla conservazione del posto di lavoro porta allo stralcio della causale per cessazione di attività . La cigs viene estesa a regime per le imprese del commercio tra i 50 e i 200 dipendenti, le agenzie di viaggio sopra i 50 e le imprese di vigilanza sopra i 15. E per le aziende non coperte dalla cig straordinaria arriva un fondo di solidarietà . La contribuzione dovrà  essere a carico del datore di lavoro (2/3) e del lavoratore (1/3) e ci sarà  l’obbligo di bilancio in pareggio. Gli ammortizzatori in deroga dovrebbero diventare strutturali, quindi non più finanziati di anno in anno. 
In caso di accordi per esodi di lavoratori anziani (che raggiungano la pensione nei quattro anni successivi al licenziamento), la loro tutela dovrebbe essere sancita con un’indennità  in attesa dell’accesso alla pensione, con costi a carico dei datori di lavoro.
Al capitolo delle cosiddette misure «di genere» sono previste norme di contrasto alle dimissioni in bianco: le dimissioni presentate dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza, o dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del figlio, devono essere convalidate dal ministero del Lavoro. Viene poi introdotto il (mini) congedo di paternità  obbligatorio (per tre giorni, dei quali due in sostituzione della madre). La riforma comprende anche tre deleghe: tirocini formativi, politiche attive per i servizi del lavoro, apprendimento permanente. (G.S.)

Licenziamenti / Indennità  fino a 24 mesi, torna il reintegro per l’allontanamento infondato
ROMA — Torna il reintegro per i licenziamenti individuali per motivi economici, nelle aziende con più di 15 dipendenti. Ma solo quando si accerti la «manifesta insussistenza» dei motivi addotti dal datore di lavoro. Negli altri casi ci sarà  un indennizzo, ridotto rispetto alla prima versione della legge: da 12 a 24 mensilità  (era da 15 a 27) dell’ultima retribuzione. Ma riepiloghiamo.
Per i licenziamenti discriminatori non cambia nulla rispetto alla precedente versione del governo, ma anche rispetto all’attuale articolo 18. Questi licenziamenti sono sempre nulli e prevedono sempre il reintegro.
Quanto ai licenziamenti disciplinari, non muta nulla rispetto alla precedente versione Fornero, tranne l’entità  dell’indennizzo: da 12 a 24 mensilità  (era tra 15 e 27). Per il resto il disegno di legge conferma la modifica dell’attuale articolo 18 che prevede sempre il reintegro nel caso manchi la giusta causa o il giustificato motivo. Infatti il reintegro ora sarà  dovuto solo quando il fatto contestato non sussiste o non è stato commesso o se il fatto rientra tra le condotte previste dai contratti collettivi. Negli altri casi ci sarà  solo l’indennizzo.
Per i licenziamenti economici l’articolo 18 prevedeva sempre e solo il reintegro nei casi di insussistenza del motivo del licenziamento. La prima versione della riforma Fornero rivoluzionava il principio e stabiliva che, quand’anche fosse stata dimostrata l’insussistenza del motivo, il lavoratore avrebbe preso sempre e solo un indennizzo tra 15 e 27 mensilità . Su instanza di Cisl e Uil, era poi stata aggiunta una tutela contro gli abusi: nel caso in cui il lavoratore avesse dimostrato che il licenziamento economico nascondeva motivi discriminatori o disciplinari, ne sarebbe stata applicata la relativa disciplina. 
Dopo il vertice di maggioranza, ferma restando la postilla ottenuta dai sindacati, è tornata la possibilità  (non l’obbligo) del reintegro. Ma in un solo caso: «Nell’ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» economico. Invece «nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo» il giudice dispone l’indennizzo tra 12 e 24 mensilità  (non più tra 15 e 27). Resta il fatto che se il motivo economico senza dubbio sussiste, il lavoratore viene licenziato senza indennizzo né reintegro.
Dunque, riepilogando, la novità  sta nel fatto che il giudice può scegliere tra reintegro e indennizzo quando il motivo non sussiste, ma per concedere il primo c’è bisogno che il motivo sia «manifestamente insussistente».
C’è anche un’altra norma studiata per evitare che il giudice vada oltre le proprie prerogative. Già  oggi è stabilito che questi non possa entrare nel merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive del datore di lavoro che licenzia. La riforma aggiunge che se lo fa, la sua sentenza può essere impugnata.
Infine molte delle speranze del governo sulla riduzione del contenzioso sono riposte nella nuova procedura di conciliazione che diventa obbligatoria per i licenziamenti economici. Prima di licenziare, il datore di lavoro deve dichiararne l’intenzione, i motivi e le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione. La direzione territoriale del lavoro convoca le parti, che possono essere assistite da sindacati o legali, entro sette giorni, presso la commissione provinciale di conciliazione. Entro 20 giorni si cercherà  una soluzione consensuale. Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione del rapporto di lavoro con un indennizzo per il lavoratore, questi può anche essere affidato a un’agenzia che ne tenti il ricollocamento. Se invece il tentativo fallisce, il datore di lavoro licenzia il lavoratore che può ricorrere contro il licenziamento. Questi potrà  dimostrare che il licenziamento nascondeva motivi discriminatori o disciplinari, ottenendone le tutele. Oppure che il licenziamento è manifestamente infondato, e allora sarà  reintegrato. Ma se non ci riesce, viene licenziato e perde il diritto all’indennizzo che avrebbe ottenuto in sede conciliativa. È questo il meccanismo per indurre il lavoratore a meditare prima di fare causa. (A.B.)


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