Identità  tedesca su sfondo europeo

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Cosa ha costituito la Germania per la coscienza europea del Novecento e, a stretto seguito, cosa rappresenta oggi? La sua natura di Stato nazionale, dai contorni ben definiti, sconta non solo un processo peculiare, del pari a qualsiasi altra comunità  politica, ma anche una «via particolare», un Sonderweg, che ne avrebbe determinato i caratteri genetici del percorso storico, facendo infine coincidere il grado di modernità  raggiunto con il livello peggiore di barbarie? 
Ancora, e di immediato riflesso: esiste un paradigma Auschwitz che nel suo manifestarsi ci aprirebbe le porte alla comprensione di un baratro stabilmente albergante nell’identità  tedesca, facendo sì che quello che è avvenuto nei luoghi di sterminio possa essere ascritto a una specificità  della Germania, a suo modo perdurante di essere nel tempo, rivelandosi compiutamente in quella tragedia? Nel qual caso, tale elemento sussisterebbe ancora? Sono questi alcuni dei quesiti che accompagnano il corposo lavoro di Marzia Ponso dedicato a Una storia particolare. «Sonderweg» tedesco e identità  europea (il Mulino, pp. 600, euro 38). Si tratta di un’indagine sui fondamenti culturali e sui criteri percettivi e autopercettivi della specificità  tedesca, dalla Riforma luterana ai giorni nostri. La centralità  del paese è dettata dal suo collocarsi sulla spina dorsale geopolitica dell’Europa, dove maggiore è stata la concentrazione di risorse e di investimenti, e quindi di innovazione, materiale e culturale. Non di meno, negli equilibri e sugli assetti del continente la Germania, cerniera tra Oriente e Occidente, ha misurato il suo ruolo di equilibrio e, parimenti, di sovversione quando le circostanze politiche ne hanno posto le premesse. 
Nell’età  contemporanea il complesso stratificarsi di fattori che hanno accompagnato la storia tedesca si è rivelato nell’elaborazione di esperienze di statualità , a partire da quella prussiana, prototipo di modelli poi diffusisi in altre comunità  nazionali. Dopo di che la tardiva unificazione, l’incompiuto processo di democratizzazione, rivelatosi prima del 1945 più come parentesi che non come esperienza durevole (ovvero la Repubblica di Weimar), la catastrofica vicenda del nazismo, hanno segnato profondamente l’identità  tedesca, assorbita pesantemente dentro il ciclo totalitario degli anni 1914-1945. La quale, del pari alla storia alla quale è ricondotta, parebbe essere segnata da un’anomalia che congiunge il massimo della modernità  con l’apice della barbarie. 
Marzia Ponso ha il merito di ricostruire, con encomiabile impegno, la traiettoria della discussione, mettendo in rilievo sia le formulazioni positive del Sonderweg, protese all’apologia di una civilizzazione tedesca, cui ricondurre il continente, sia quelle negative, destinate spesso a trascendere nell’identificazione della stessa Germania come di una patologia da risolvere «chirurgicamente». Così era nel 1945 e così sarà  ancora per altro tempo, all’ombra di un’antropologia negativa destinata a celebrare i «caratteri nazionali» come essenze immutabili. Merito dell’autrice è il cogliere la reciprocità  d’interessi tra queste interpretazioni, destinate, nel loro parossismo, a ruotare intorno a schematismi di giudizio ripetuti ossessivamente. Sia le versioni affermative che quelle avversative si sono infatti rinforzate vicendevolmente, in un gioco di specularità . All’autocompiacimento si è così accompagnata la denigrazione che, erigendo a parametri universali di giudizio alcuni elementi della storia tedesca, hanno istituito una falsa dialettica tra norma e sua devianza. Dopo di che la rielaborazione del proprio passato, lo sforzo compiuto da una parte dei tedeschi, dagli anni Sessanta in poi, di riconquistare la propria storia alla luce di una sua rilettura critica dall’interno, ovvero da se stessi, non si può dire che non abbia lasciato il segno. 
Se il tema, storiograficamente, è già  esaurito in sé, riecheggia invece con rinnovata potenza quando si considerano le tensioni cui l’Unione europea è sottoposta in questi anni di grave crisi economica e politica. La Germania è stato agente attivo nella costruzione delle istituzioni comunitarie. La sua esperienza storica, d’altro canto, rimanda immediatamente a elementi che appartengono al vocabolario della cittadinanza continentale: lo stato sociale e il sistema previdenziale, la formazione e l’estensione dello stato di diritto, il richiamo all’economia sociale di mercato, l’esperienza federale negli assetti territoriali, la formulazione di un’idea di patriottismo costituzionale alternativa a quella nazionalista, lo stesso sistema del capitalismo renano sono tratti costituenti di quell’accezione inclusiva e solidale che sta alla base delle Costituzioni materiali fondate su una visione progressiva dello sviluppo. 
E sono proprio tali elementi a essere oggi messi in discussione dai riassetti che la crisi ingenera a livello europeo. Il confronto con l’esperienza tedesca, tralasciando la tentazione di ricondurlo a un modello unitario e cogliendo piuttosto le ibridazioni con le altre «vie nazionali», anch’esse spurie, a partire dalla Francia e dall’Inghilterra, si impone oggi non tanto per la conta delle eccellenze, come delle arretratezze, quanto per capire cosa rimanga di un secolo dei diritti, il Novecento, sottoposti a una torsione violenta. In questo la Germania ha forse qualcosa da dirci, al di là  delle ombre dei lasciti ideologici, quando il discorso si focalizza dal passato sul tempo presente. Non è quindi fuori luoghi affermare che l’ossessione con la quale si guarda a ciò che è trascorso, spesso confondendone i tratti e le fisionomie, richiami la paura di quello che potrebbe essere nel futuro prossimo. 
La Germania è stata protagonista della storia continentale e continua a esserlo, soprattutto per la posizione di preminenza che le sue élite dirigenti hanno espresso e continuano ad esprimere. Se non c’è stato un unico Sonderweg tuttavia le strade della modernizzazione sono spesso passate attraverso l’esperienza tedesca. Nel suo passato, irrisolto, si specchiano le difficoltà  di un’Europa che misura non solo la faticosità  del continuare a stare insieme ma, soprattutto, l’incapacità  di farlo tutelando la sua dimensione sociale.


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