IDEALE QUANDO IL RINASCIMENTO SCOPRàŒ LA DIVINA PROPORZIONE
Concepita attorno a un confronto, che è anche un temporaneo ricongiungimento, tra due delle tre celebri e un po’ misteriose tavole con rappresentazioni prospettiche di città ideali che provengono quasi certamente proprio dal palazzo che ospita l’esposizione – un edificio che Baldassarre Castiglione definì con memorabile metafora «una città in forma di palazzo» –, la mostra La Città Ideale. L’utopia del Rinascimento a Urbino tra Piero della Francesca e Raffaello esibisce nel suo stesso allestimento, con sette sezioni che si diramano come a formare le punte di una stella al centro della quale rifulge il confronto-ricongiungimento, la nitida e un po’ metafisica perfezione geometrica delle vedute prospettiche che ne costituiscono il fulcro concettuale. Un fulcro o, se si preferisce, un fuoco prospettico, che intende costituire anche il logo, l’eloquente ed efficace emblema, di quella civiltà rinascimentale che fiorì a Urbino tra Quattro e Cinquecento, inducendo il compianto André Chastel, uno dei grandi storici dell’arte del nostro tempo di cui proprio quest’anno si celebra il centenario della nascita, a parlare di «Rinascimento matematico urbinate».
Lascio volentieri alla competenza di Cesare De Seta il compito di parlare delle tre vedute di città , di cui mi occupai anch’io, in anni ormai lontani, forse sopravvalutando, sulla scia di Richard Krautheimer, la loro connessione con la scenografia della prima rappresentazione nel Palazzo urbinate della Calandria di Bibiena, messa in scena nel 1513 da Girolamo Genga con la regia di Baldassarre Castiglione, avanzando l’ipotesi non del tutto peregrina che avessero un qualche rapporto con l’attività del fiorentino Baccio Pontelli, autore di mirabili tarsie prospettiche eseguite in loco per il Palazzo ducale urbinate.
Mi occuperò, invece, delle altre diramazioni del percorso espositivo stellare di questa rassegna stimolante e ambiziosa, che mostra le radici matematico-prospettiche del Rinascimento promosso da Federico da Montefeltro, scaltro e temibile capitano di ventura senza troppi scrupoli, ma uomo colto e soprattutto ben deciso a mostrarsi tale. Chiamò infatti attorno a sé il fior fiore degli artisti e degli scienziati del suo tempo, riuscendo a dar corpo e forma visibile alla rappresentazione del proprio modo di concepire il potere: un autoritratto ideologico, avvolto di abbaglianti panni utopici, persuasiva incarnazione di un governo che aspirava a mostrarsi saldo, equilibrato e saggiamente illuminato. Le sezioni in cui la mostra è articolata passano in rassegna alcuni degli snodi più affascinanti del Rinascimento italiano, illustrandoli una cinquantina tra dipinti, sculture, tarsie lignee, disegni, medaglie e codici miniati, che spaziano da Domenico Veneziano a Sassetta, da Piero della Francesca a Fra’ Carnevale, ormai definitivamente smascherato come l’autore delle enigmatiche “Tavole Barberini”. E ancora: da Francesco di Giorgio a Luca Signorelli, da Mantegna a Perugino, da Bramante, il grande urbinate di cui nulla è rimasto in patria, a Raffaello e a Jacopo de’ Barbari, autore del sibillino Ritratto di Luca Pacioli, il conterraneo di Piero della Francesca, che in trattati come la Summa de Aritmetica (1494) e il De divina proporzione (1509) ne divulgò le sublimi speculazioni matematico-prospettiche.
La Terza sezione, ad esempio, nell’approfondire il tema quattrocentesco della città dipinta ci fa compiere una folgorante escursione in quella che Luciano Bellosi, il grande storico dell’arte da poco scomparso, felicemente definì la «pittura di luce». Si passa così dalle pionieristiche opere di Domenico Veneziano, che contribuì in modo decisivo alla formazione pittorica di Piero, a Filippo Lippi e a Beato Angelico, per poi immergersi in un intrigante confronto tra le Tavole Barberini e le deliziose Tavole perugine di San Bernardino, arricchito da un dialogo con le scenografie cittadine presenti nei dipinti di Francesco di Giorgio.
Ma se le vedute prospettiche di città sono il logo dell’ideologica utopia politica forgiata da Federico da Montefeltro, la luminosa tavoletta con la Flagellazione di Piero ne è l’aureo, divino sigillo. La sua composizione si basa infatti sul rapporto matematico-geometrico della sezione aurea, che era definita la “divina proporzione” perché si credeva riflettesse l’armonia impressa da Dio al creato. Com’è arcinoto, questo dipinto ha scatenato – e c’è da scommettere continuerà a farlo – l’irrefrenabile vena dietrologica di plotoni di storici e storici dell’arte, veri o improvvisati, che hanno formulato le ipotesi più diverse e fantasiose, quasi sempre imperniate sul presupposto che esso veicolasse chissà quale messaggio politico. È pertanto un vero sollievo poter constatare che le due curatrici della mostra hanno messo da parte dietrologia e fantapolitica, aderendo di fatto alla tesi che fu formulata da Charles Hope e Paul Taylor nel 1993. Tesi che in buona sostanza inserisce il quadro di Piero all’interno di una serie di opere (ad esempio alcuni disegni prospettici di Jacopo Bellini) che utilizzano il tema sacro come pretesto per mostrare le novità introdotte dalla “scoperta” brunelleschiana della perspectiva artificilialis. I tre misteriosi personaggi sulla destra in primo piano, sui quali si sono scatenate le ipotesi della fantapolitica, appartengono infatti alla tradizione della Flagellazione. Sono i capi Ebrei rimasti fuori dal Pretorio di Pilato. La loro singolarità , sta tutta nella loro preminenza visiva, rispetto alla scena in cui Cristo subisce le torture. Ma tale preminenza è un vistoso effetto della prospettiva. Non si tratta dunque di un quadro-sciarada, ma di un quadro dimostrativo, un pezzo di bravura: la folgorante dimostrazione di una maestria prospettica e luministica in cui Piero non aveva rivali. Quelle tre figure in primo piano, quell’estremizzata inversione tra il soggetto principale – che appare sorprendentemente diminuito alla vista, rimpicciolito dalla distanza – e il soggetto secondario, che invece giganteggia in primo piano per virtù di prospettiva, sono innanzi tutto la clamorosa, radicale dimostrazione visiva della rivoluzione con cui la scienza prospettica rinascimentale veniva a sconvolgere le consuetudini iconografiche e percettive della pittura narrativa. Una rivoluzione ottica e mentale che aboliva, fino a rovesciarle, le tradizionali gerarchie dell’immagine medievale, allontanando in un passato remoto ormai irrecuperabile gli stereotipi compositivi basati sulla prospettiva gerarchica, la cosiddetta “prospettiva invertita”. Non un quadro politico, dunque, ma una sorta di credenziale, presentata da Piero a Federico da Montefeltro per mostragli il proprio valore.
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