I veri nemici della politica
Mentre Pini accusa Reguzzoni di aver ricevuto soldi. E ancora non si è spenta l’eco dell’autodafé, con il capo in lacrime tra gli incensi, né quella dell’affaire Belsito condito di diamanti, né quella dei dossieraggi a carico di Maroni. Sconosciuti o «tollerati» da Bossi.
Bisogna pur dirlo: è l’acme di una tragicommedia, dove la vita imita l’arte comica. Qualcosa che neanche Orwell, nella sua Fattoria degli animali, si sarebbe mai sognato: il partito personale e carismatico degli epuratori – figlio dei «ceti virtuosi del nord» si sta autoepurando. In una furia del dileguare dove l’antipolitica forcaiola dei cappi si ritorce contro se stessa. E mostra il suo destino. Quello di generare arbitrio, prepotenza e familismo. Guarnito di mogli, badanti, figli e benefits. In un corto circuito che salda capi e popolo. Gabbando il secondo e lasciando mani libere ai primi. Non è «scherzi a parte», è un pezzo dell’Italia di questi ultimi venti anni berlusconiani: la distruzione della politica e dei partiti. In nome della vitalità barbarica e rigeneratrice della «società civile» e «dei ceti produttivi». Avvenuta tra il tripudio e il voto benevolo di opinionisti e giuristi. E che ha prodotto alla fine molti più guasti della politica di una volta, e partiti ben più «partitocratici» di prima. Con corteo di notabili locali, sottocapi, triumviri, lobbies e brasseur. E filiere economiche privilegiate, in capo a piccoli e grandi uomini della provvidenza.
Insomma, per certi aspetti siamo all’anno zero. Perché davvero stavolta, e in condizioni di drammatica emergenza, il discredito di questa politica, dominata a lungo dall’asse Berlusconi-Bossi, rischia di travolgere tutto. In un vortice emotivo senza fine, sospinto dal risentimento di massa e dall’insicurezza. Che, come già accaduto nella storia, può rifluire in anarchia populistica e regressiva. O in forme nuove di sovversivismo dall’alto, sull’onda dell’astensionismo e della protesta. Magari nel segno del «tecno-populismo», che è poi nient’altro che un regime commissario sui ceti subalterni e sulla politica, nel quadro di compatibilità finanziarie dettate dall’esterno e incontrollabili.
Per questo, e anche la vicenda della Lega ce lo dice, è necessario sbrigarsi a ricostruire un tessuto sano della politica di massa. Che in ogni democrazia è sempre e comunque fondato su partiti. Un tessuto civile, identitario, di appartenenza. Tra società e Stato. E tra politica e movimenti. Quel tessuto che deve esprimere governi programmatici e di partito è l’unico in grado di risospingere in avanti l’economia. E può essere un buon contrappeso etico di responsabilità e di trasparenza. Ma a certe condizioni ben precise.
La prima sta nel comprendere come si è giunti alle derive di oggi. E la risposta è: ci si è giunti con questo bipolarismo malato e maggioritarista. Fondato su partiti «coalizionali» e
«acchiappatutti». Populistici e proprietari a destra. Di opinione «liberal» a sinistra. In ogni caso su partiti «personalitari». Perciò non è più tempo di indugi: occorre una riforma elettorale che favorisca aggregazioni imperniate su partiti egemoni. Radicati nelle culture politiche e negli interessi di fondo del Paese. E poi: porre mano, entro la fine della legislatura, alla riforma del bicameralismo, e alla riduzione dei parlamentari. E infine: ridurre i costi della politica, con controlli di spesa rigorosi ed esterni, fino a sanzioni esemplari per chi tesaurizza in modo improprio gli avanzi di bilancio. Ma c’è un’altra cosa da chiarire: «governo di partito» non vuol dire «Stato-partito». E men che mai «partito-Stato» piglia-posti. Vuol dire cittadinanza e partiti forti. Con distinzione di ambiti e ripudio di sprechi e corruttela. Eccolo il «che fare». Prima che la «gente» faccia di ogni erba un «fascio». O una Lega…
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