I Tuareg riconquistano la loro Regina

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Timbuktu la “misterieuse”, come veniva chiamata anche in tempi recenti, quando non c’era nessun mistero e la città  era ben conosciuta, è stata sempre negli ultimi due o tre secoli, un mito che si rivelava fasullo ogni volta che un viaggiatore europeo vi metteva piede. Il suo periodo di splendore risaliva a molti secoli prima, quando faceva parte dell’impero Songhay: una città  di ventimila abitanti, tutti dediti al commercio, che sfruttavano la sua posizione strategica, a cavallo tra due immense aree africane completamente diverse: quella acquitrinosa del fiume Niger e dei pescatori animisti Bozo, un fiume che si può risalire anche d’estate con le “pinase”, le barche locali, anche quando pesca meno di un metro. E quella desertica del Sahara, dove non esistono fiumi se non, nella forma di letti sabbiosi: una maledetta “uadi” dopo l’altra, come dicevano nel secolo scorso gli inglesi che l’avevano attraversato, quando ancora non era nata – la moda della wilderness, e il deserto era ancora giudicato come un “abominio di desolazione” e le turiste che trovavano quei luoghi “divini” erano ancora di là  da venire.
Da Timbuktu – conquistata ieri dai ribelli del Mali – partivano tradizionalmente le carovane dirette alle cave di sale di Taoudeni, al centro del Sahara, un minerale indispensabile per tutti i paesi tropicali e subtropicali, dove la sudorazione eccessiva portava a degli scompensi fisici che potevano essere regolati solo con il sale. Le carovane provenienti da sud trasportavano schiavi, penne di struzzo, avorio, ma soprattutto l’oro del Ghana, e riportavano indietro i preziosi blocchi di salgemma. Quasi tutte le monete dell’epoca romana, compreso l’aureo erano coniate con l’oro del Ghana e della Costa d’Oro. E i luoghi d’origine e di partenza del prezioso metallo, sollecitavano la fantasia degli europei, che immaginavano Timbuktu come più tardi i conquistatori spagnoli si immaginarono l’Eldorado: case con i tetti d’oro e strade lastricate da pepite. 
Quando René Caillié, il primo viaggiatore europeo ad attraversare il Sahara arrivò alla città  misteriosa, nel 1828, trovò che quella che si era trovato davanti non rispondeva alle sue aspettative: «Mi ero fatto della grandezza e della ricchezza di Timbuktu tutta un’altra idea. Vedevo solo un ammasso di case in terra mal costruite, dove regnava una tristezza e un silenzio innaturali, in cui non si sentiva neppure il canto di un uccello». Il mercato era modesto, c’erano solo tre negozi che vendevano merci europee come ambra, corallo zolfo, carta e stoffe. Non si vedeva nessun nobile palazzo sahariano emergere dalla sabbia e dal fango, come La moschea di Djenné. I monili d’oro erano limitati a piccole collane portate dai Tuareg, e bracciali più pesanti portati dalle mogli dei commercianti mori. Dell’università  coranica, famosa durante il medioevo, non c’era traccia, e i libri che si trovavano nella libreria più grande della città , erano trascrizioni di sura del Corano, sempre le stesse». 
La popolazione della città  era di tipo misto e i Tuareg costituivano il gruppo etnico più numeroso. Il potere era teoricamente nelle mani dei marocchini, che però stavano sotto l’incubo e le continue razzie dei Tuareg. Questi nomadi razziatori per istinto e tagliagole nati, erano nomadi ma diventavano stanziali per qualche mese all’anno accampandosi alle porte di Timbuktu. E a cavallo d arrivò magnifici destrieri arabi, e roteando le loro spade affilate, con i pugnali e una fascia stretta alla vita, entravano città  con aria truce, chiedendo a tutti quelli che incontravano i “regali” promessi. Era una domanda che non si poteva rifiutare – Caillié ci ha dato la prima descrizione completa dei Tuareg. Come tutti i musulmani avevano più mogli, ma le favorite erano sempre degli esemplari femminili che avevano superato l’obesità  e che diventavano, così grasse, un’attrazione fatale e irresistibile per questi corridori del deserto, abituati ad una vita dura. I Tuareg erano in genere ricchi, allevavano montoni e pecore, frutto di razzie, portavano sempre una benda davanti al viso, che dava loro un aspetto misteriose e temibile, si facevano servire da una moltitudine di schiavi, catturati come la merce durante gli attacchi alle carovane. Nel deserto erano imbattibili, conoscevano palmo a palmo tutto il Sahara e viaggiavano di notte per orizzontarsi con le stelle. Avevano una resistenza incredibile, non perdevano mai la rotta, a differenza degli arabi o degli africani, e sapevano datare con sicurezza l’età  della dune, basandosi sulle sfumature di colore che nel deserto andavano dal marrone, al giallo, al rosa.
Con il passare del tempo Timbuktu andò perdendo quella qualifica semiufficiale di capitale dei Tuareg. Le tribù più irrequiete ora si trovavano più a nord, nella zona di Tamanrasset e dell’Hoggar, chiamata Bled el Kouf, il paese della paura, dove la colonna Flatters, mandata in ricognizione per un piano demenziale come la ferrovia transahariana, che doveva attraversare il deserto da Algeri a Dakar, venne sterminata da un gruppo di Tuareg. E anche la rivolta nel novecento guidata dal “sultano” Tegamà , che venne poi fatto strangolare in prigione dai francesi, aveva come teatro i dintorni di Agades. Alcuni Tuareg erano diventati guide militari. Cino Boccazzi, un indimenticabile scrittore di storie del deserto, era diventato amico di un Tuareg che aveva condotto un distaccamento dei soldati gaullisti, guidati al generale Leclec, nome di battaglia di De Lattre de Tassigny, dal Chad fino al Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale. 
Anni prima il più grande viaggiatore transahariano del secolo, Theodore Monod, era arrivato a Timbuktu per la prima volta come prima tappa per un viaggio nel deserto che sarebbe durato sei mesi. A Timbuktu aveva trovato una carovana di tremila cammelli che stava per partire verso il nord. Monod decise allora di partire insieme con la carovana e andò comprare tutto quello che serviva per il viaggio: grano, riso, arachidi, caffè, miele, burro fuso e un sacco di tè verde. I Tuareg non partivano più per le razzie dopo aver bevuto all’alba, al riparo dietro una duna, quel the verde concentrato e distillato nelle teiere numerose volte. Ma quella era rimasta la loro bevanda preferita e Monod voleva bere con loro, davanti a un fuoco di sterpi quel the bollente, circondato dal deserto che amava.


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