by Editore | 7 Aprile 2012 15:51
«Noi, il popolo dell’Azawad…». Solennemente e «irrevocabilmente», la dichiarazione di indipendenza dal Mali sventola da ieri sul sito ufficiale del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla), l’organizzazione in cui si sono coagulate a partire dall’ottobre 2011 le varie anime della pluridecennale lotta tuareg contro il governo centrale di Bamako, più 2-3 mila combattenti rientrati dalla Libia dopo la caduta di Gheddafi. Uno strappo in avanti senza precedenti, con il quale i ribelli secessionisti provano a riprendersi la scena e a smentire l’ipotesi di una supremazia delle milizie islamiste in seno alle forze che nei giorni scorsi hanno conquistato militarmente tutte le principali città del nord.
Di fronte a questa formale e inedita deliberazione, sia l’Unione africana che la Francia, ex potenza coloniale, fanno spallucce. Ma la mossa è indigesta soprattutto alle milizie islamiste che hanno partecipato attivamente all’offensiva e che ora accampano diritti non da poco, come quello di applicare la sharia nelle città conquistate. «La nostra è una guerra santa – taglia corto Omar Hamaha, capo militari di Anà§ar Dine, la fazione guidata dall’ex ambasciatore maliano in Arabia Saudita, Iyad ag Ghaly – Siamo contrari all’indipendenza. Siamo contrari alle rivoluzioni che non vengono fatte in nome dell’Islam». Insomma, di un nuovo Stato «basato su una Costituzione democratica», come recita la dichiarazione d’indipendenza, gli islamisti non sanno che farsene. Riesplode quindi la divaricazione tra «jihad» e «lotta di liberazione», dimenticata per il tempo necessario a cambiare l’inerzia della battaglia. E visto che il presidente della commissione dell’Unione africana Jean Ping ha definito la dichiarazione dell’Mnla «nulla, non valida», e che di conseguenza il ministro della difesa francese Gerard Longuet ha buon gioco nel dire che «un’indipendenza non riconosciuta dai paesi africani non ha alcun significato per noi», i jihadisti almeno da questo punto di vista possono stare tranquilli.
Varie testimonianze riferiscono di bar dati alle fiamme nella crociata anti-alcol che ha investito Gao e Timbuctù dopo la disfatta dell’esercito maliano, obbligo di velo e divieto di pantaloni imposto alle donne, violenze e saccheggi ai danni di cittadini algerini (l’Algeria, in guerra perenne con gli islamisti, è vista come il nemico numero uno). Cresce quindi l’allarme qaedista, su cui fa leva ovviamente la giunta militare che il 22 marzo scorso ha preso il potere a Bamako, rovesciando il presidente Touré. La situazione in cui si trovano i giovani ufficiali guidati dal capitano Sanogo è al limite del grottesco: l’intento del golpe era quello di garantire all’esercito risorse e mani libere nella guerra che infuriava al nord, ma ora i militari si ritrovano con mezzo paese di meno e una marea di grane in più, e mentre fioccano le sanzioni per il colpo di stato invocano aiuti internazionali per arginare il pericolo jihadista. Non per l’emergenza umanitaria che riguarda almeno 250 mila profughi, fuggiti in tutte le direzione dalle zone dei combattimenti, senza cibo né alcuna possibilità di essere raggiunti dalla solidarietà internazionale.
Un altro paradosso, per così dire, psicogeografico, è quello degli «uomini blu», i tuareg, o kel tamasheq, nomadi sahariani che in nome della libertà di movimento in senso lato e contro l’imposizione di frontiere hanno sempre e principalmente lottato. Ora in nome dell’indipendenza sono pronti a riconoscere «i confini in vigore con gli stati limitrofi e la loro inviolabilità ». Precisazione non da poco, perché i tuareg vivono in Mali come in Niger e in Algeria, senza contare il sud-ovest della Libia e l’estremo nord del Burkina Faso. I confini tra le diverse lotte per l’autodeterminazione diventerebbero ancora più incerti. Un riconoscimento dell’Azawad, per la comunità internazionale e i paesi interessati, equivarrebbe alla creazione di una nazione kurda da qualche parte tra la Turchia e l’Iran. Molto più della semplice istituzione di un ennesimo stato africano, quindi. Con una ulteriore preoccupazione, la scarsa omogeneità etnica che si riscontra nei territori in questione.
Ma con la dichiarazione d’indipendenza il dado è tratto: «La guerra di liberazione è finita – ha detto ieri il portavoce dell’Mnla Ag Attaher – La vera impresa inizia ora».
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