I Serenissimi e l’ultima vendetta del “tanko”

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MONTAGNANA UNA strada di pioppi nel buio, oltre le magnifiche mura guelfe di Montagnana. Lontano, le luci dei Colli Euganei e, più oltre, il grande nulla della Bassa padovana e del Polesine verso la foce dei fiumi del Nord, là  dove Brenta, Adige e Po creano un immenso spazio franco che non è acqua né terra né Veneto né Emilia.

EFORSE nemmeno Italia. In fondo a quella strada, una villetta con giardino con accanto un garage. Dentro, un’ombra dal forte odore di ferro e vernice, simile a quella di un trattore, ma più compatta. E’ il “blindato serenissimo” che quindici anni fa, il 9 maggio, sbarcò davanti alle Procuratie per assaltare il campanile di San Marco e innalzarvi la bandiera col leone di Venezia.

È tornato a casa, nel nido dove nacque, il “tanko” del kommando che quella notte mandò in tilt l’intero sistema di sicurezza dello stato unitario, facendo volare nel mondo la rivendicazione di un Veneto autonomo. E’ di nuovo lì, con le sue dodici tonnellate e la targa “VT MB”, veneto tanko Marcantonio Bragadin; lì dove venne costruito segretamente in un capanno in mezzo alla pianura, lontano da occhi indiscreti. Sono passati gli anni, tutti i tredici imputati hanno scontato le condanne inflitte per direttissima, molti di loro si sono divisi, il venetismo stesso sembra andare in frantumi nel patatrac della frana leghista, ma il nucleo degli irriducibili è rimasto, fedele alla sua idea, attorno a quel simbolo e quella bandiera.

Rieccoli, nel buio della piana veneta, Flavio Contin e suo nipote Christian, rispettivamente il “vecio” e il “bocia” del gruppo. Riecco Gigi Faccia, il duro, la mente del kommando, l’ideologo del Veneto autonomo. Con loro, attorno a una bottiglia di bianco euganeo detto Serprino, anche Ettore Beggiato, segretario dell’Unione Nordest in consiglio regionale, che quindici anni fa suonò la campana della solidarietà  per i “parioti” in galera, raccogliendo in pochi mesi duecento milioni di lire dalle mani del popolo veneto. Rieccoci a ragionare con loro di quei giorni straordinarie anche del futuro dell’idea, sotto una riproduzione della famosa tela sulla battaglia di Lepanto esposta nel duomo di Montagnana. Ce l’hanno con Roma, ovviamente, che ha riscritto la storia gloriosa della repubblica veneta, degradandola a “repubblichetta dedica al vizio e a eterni carnevali”. Ma gli ultimi Serenissimi ce l’hanno soprattutto con la Lega che, con la fanfaluca della Padaniae della secessione, ha distolto il popolo dalla battaglia – assai più praticabile – per l’autonomia del Veneto.

Non dimenticano che gli uomini di Bossi squalificarono il commando come “brigata mona” e il Senatur bollò l’assalto come operazione “dei servizi segreti e della mafia” mirata a impedire la nascita della Padania. Non dimenticano, e non nascondono la soddisfazione nel vedere in queste settimane il crollo dei lumbard e di un sistema di occupazione del potere che “fa rimpiangere la vecchia Dc”.

“Purtroppo il senso di quell’operazione l’hanno capito primai nostri nemici chei veneti” spara il vecchio Contin, elettricista di 69 anni, scapolo dalla parlantina incontenibile. “Lo stato centralista ha fiutato subito il senso dell’assalto, ha intuito che la bandiera di San Marco era più pericolosa del blindato, perché metteva in discussione l’assetto del Paese”. Ma anche Bossi seppe annusare l’aria. Capì che l’azione metteva in forse la sua leadership nella Lega. “Per questo – spiega – ci attaccò. Aveva la fobia della bandiera veneta. Sapeva che la forza della nostra idea era superiore a quella padana, perché radicata in una storia reale, fatta di buon governo, di giustizia e forza economica”.

Ma torniamo a quei giorni febbrili del maggio 1997. “La polizia ci controllava da un mese e mezzo – racconta Gigi Faccia – da quando avevamo cominciato a mandare messaggi di rivendicazione sulla frequenze Rai, interferendo sui programmi. Si aspettava qualcosa, senza avere idea esattamente di cosa. L’effetto sorpresa era saltato da tempo, ma noi sapevamo che l’allerta delle forze dell’ordine era tutta sull’11 maggio, data del duecentenario della caduta della Repubblica veneta per mano napoleonica, e così decidemmo di spiazzarli anticipando l’assalto al giorno 9. E loro, quando si trovarono di fronte al nostro blindato, andarono in panico. Furono presi così di sorpresa che pensarono che una parte dell’esercito si era ammutinato”. Il vecchio Contin cerca in un monte di ritagli di giornale e volantini sull’assalto e il processo. “Guardi qua: i media ci hanno chiamati ubriaconi, poveracci, scemi. Ma la gente nella campagne aveva capito il senso del nostro gesto. Era una rivendicazione di identità . Era il nostro modo di dire che, se togli la storia alla gente, crei spaesati. Vede, noi di campagna abbiamo il senso del territorio e dell’appartenenza. Questa società  dove tutto è meticcio ci inquieta, perché fa saltare i valori. Sappiamo che senza radici si diventa orfani, anche coni genitori”.

Faccia ribadisce: “Se invece di violentare la storia l’Italia fosse nata federale accettando le sue diversità , saremmo diventati una Svizzera al cubo e avremmo evitato l’obbrobrio di oggi”.

Tira vento, i pioppi si agitano nel buio, sembrano dire che anche l’industriosa terra serenissima ha paura. La crisi ha seminato diffidenza, generato ondate di suicidi fra i padroncini e spinto i giovani verso la rabbia o l’assenteismo. La famiglia, fondamento dell’iperflessibile modello veneto, è anch’essa in crisi, scardinata dalla sub-cultura dell’effimero. Potenzialmente, la situazione è ancora più incendiaria che ai tempi dell’assalto al campanile perché oggi c’è in più la prospettiva di una saldatura fra i nuclei duri dell’identità  e la rabbia dei centro sociali. Già  dopo la Grande Guerra il capo del governo Luzzatto scrisse che esisteva il “pericolo di un’Irlanda veneta” perché i territori “più sobri nel chiedere” potevano trasformarsi in “ribelli della disperazione”. E oggi? Cosa penserebbe la gente comune di una nuova ondata di rivendicazioni autonomiste nel segno di San Marco? Per Beggiato oggi la solidarietà  che circondò l’assalto e il processo pare difficilmente replicabile. “Quando feci la colletta per i Serenissimi – ricorda – venne una vecchietta che mi mise in mano metà  della sua pensione.

Mi vengono i brividi a pensarci. Difficile che cose simili avvengano in questa società  frantumata”. In ogni caso, tutto vogliono gli irriducibili del maggio ’97, tranne che il loro blindato, grimaldello-simbolo di un nuovo patto fra le Italie, diventi folclore di paese, oggetto di curiosità  da baraccone. Per questo non lo mostrano volentieri e preferiscono farlo dormire in fondo a un disadorno capannone, come una reliquia nella sua cripta.

Nemmeno di Luca Zaia hanno fiducia, i Serenissimi. Zaia, il superpresidente padano del Veneto, che ammira Napoleone Bonaparte, affossatore della Repubblica di San Marco, e si genuflette ancora davanti a Bossi chiamandolo “capo”. No, la Lega no, perché col suo “inciucio” con Berlusconi non ha concluso nullae ha squalificato persino la parola “federalismo”, troppo urlata e quindi svuotata di significato. Oggi, in questa terra bruciata dalla malapolitica, davanti al crollo di un sistema, non se la sentono di portare avanti nient’altro che la storia, il richiamo alle radici. “Dobbiamo riscoprire i grandi valori di quella che fu la nostra repubblica”, proclama il duro Gigi Faccia. “Altro non resta”.

Ed enumera, a pugni chiusi, i capisaldi della Serenissima. Giustizia rapida, umana ed efficiente, cura del territorio, proibizione dei monopoli, punizione severa delle sofisticazioni alimentari, tutela severissima dei brevetti. Cose che oggi sarebbero più necessarie di ieri. Ma soprattutto, conclude, la repubblica veneta aveva inculcato “il senso dello Stato e della cosa pubblica”, oggi scomparsi dall’orizzonte mentale. Magari non era tutto oro ciò che brillava, ma crederci fa bene. E fa bene ripensare a quei giorni “grandi”, quando c’era qualcosa di forte in cui credere.

“Lavorando notte e giorno ogni fine settimana ci passava la rabbia per la politica”, ghigna il “vecio” Contin. Un magnifico gioco, col segreto da tenere, le riunioni in posti sempre diversi, le trasmissioni clandestine, la certezza della condanna, il patto di non scoprire i complici (che poi non fu mantenuto). E poi quel blindato, fatto in anni di lavoro, che quella notte a Venezia fece più effetto di una piazza piena e volò con la sua immagine fino agli antipodi. “Fu una grande operazione mediatica anche per la città , e la dimostrazione fu che il sindaco Cacciari ci chiese 200 milioni di danni, ma poi fece mettere il tanko nel sito turistico di Venezia.

Non è ipocrisia questa?”.


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