I racconti arrivano all’alba

by Sergio Segio | 26 Aprile 2012 5:52

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Dormo poco. Ho sempre dormito poco, ma ogni anno la vecchiaia si ruba un po’ del sonno che mi resta. La sera, troppo presto, crollo in un sonno sordo, ma con il passare delle ore diventa sempre più leggero e intermittente. Un nonnulla e gli occhi si sgranano pronti a ricominciare. Per prima cosa guardo i numeri rossi della sveglia. Le quattro e ventisette. Le quattro e cinquantatre. Le cinque e venti.
Per un periodo mi sono alzato e sono andato al computer e con la cuffia in testa ho combattuto contro orchi e elfi in un gioco on line insieme ad altri insonni sparsi per la penisola. Alle otto ero uno straccio da buttare.
Adesso non gioco più e me ne rimango a letto. Me ne sto lì, al buio, in silenzio, il tempo non passa e spero di riaddormentarmi ma non succede quasi mai.
Durante queste ore di veglia non penso granché.
Nel caldo del letto, la nuca affondata sul cuscino, le braccia serrate al petto, i cani che mi pesano sulle gambe, ricordo un sacco di cose del passato e contemporaneamente mi stupisco di come il mio cervello, se lasciato a se stesso, indisturbato da stimoli esterni, possa tornare indietro nel tempo di decenni e mantenere inalterati (a me almeno pare così) ricordi che non sapevo nemmeno più di possedere, piccoli fatti quotidiani che incrostano i neuroni come denti di cane lo scafo di una barca. Tornano su di notte, come gnocchi nell’acqua che bolle, facce di gente conosciuta in una vacanza in Grecia a diciotto anni. Mi ritrovo a tavola in un ristorantino sotto un carrubo dove tra la feta e i pomodori si muovevano pigre larve bianche. Ricordo il sapore di burro di cacao delle labbra di una di Monte Mario con cui mi sono baciato sul treno che mi portava in Inghilterra. Mi commuovo ripensando ad amici a cui avrei regalato un rene e che ero certo che niente e nessuno ci avrebbe diviso e che ora non so nemmeno più se sono vivi.
Questo vortice che mi trascina indietro mi porta inevitabilmente a modificare i ricordi, a inventarmi nuovi terrificanti finali.
Che ne so… Mentre mi bacio con quella di Monte Mario assaporando il burro di cacao, dalla cuccetta di sotto emerge un essere sottile e lungo come un insetto stecco che ci osserva senza parlare. Gli occhi neri e senza sclera. Respira con il naso. Allunga un braccio. E in mano ha un passero morto e ce lo porge mentre un sorriso si apre sulla bocca senza labbra…
Quasi sempre queste storie con la luce del giorno, davanti allo schermo del computer, si rivelano fiacche e velleitarie. Non mi fido tanto delle trame che fioriscono dal cuore delle tenebre, sono parenti strette dei sogni, roba buona per gli psicoanalisti, ma non per scrivere qualcosa di decente.
Ma per fortuna non sempre è così. Ogni tanto il nucleo primordiale di un racconto, una situazione paradossale, un lato inaspettato del carattere di un personaggio mi appare chiarissimo.
Per fare un esempio, per il primo racconto, Giochiamo?, qualcuno mi aveva raccontato che al policlinico di Roma degli infermieri bastardi puntavano i vecchi in fin di vita e se vivevano soli gli rubavano le chiavi di casa. Nel momento in cui se ne andavano al creatore gli ripulivano l’appartamento.
«E se…?» Ecco come mi parte una storia. Da una semplice (e spesso inverosimile) ipotesi.
E se l’infermiere entra nella casa e dentro ci trova un mostro, un nipote mostruoso e disperato per la mancanza della nonna? È una domanda che produce un’invenzione, la molla che mette in moto ogni racconto che scrivo.
I protagonisti sono quasi sempre persone comuni. Come reagirebbe Pennacchini, il mio vicino di casa, trovandosi di fronte un alieno? A una notte di sesso accidentale che gli ribalta tutte le certezze? Un pavido, un soggetto deriso da tutti, può salvare il mondo dalla catastrofe? E un vincente, uno che si sente un Cristo in terra, può trasformarsi in un pusillanime, può, dopo avere investito un pedone, abbandonarlo mezzo morto sul ciglio di una strada di campagna?
Improvvisamente sono quasi accecato dalle mille possibilità  che mi offre una trama, mi toglie quasi il respiro. Non posso più stare a letto e mi alzo di scatto e vado a scrivere nel buio del salotto.
Questo fenomeno notturno succede solo per i racconti. I romanzi li scrivo di giorno.
I romanzi assomigliano a montagne altissime e per affrontarli ci vuole la luce del sole. Dal fondovalle riesco a intravedere appena la cima avvolta dalle nuvole. Riconosco una possibile via di arrampicata attraverso guglie affilate e morene, poi gobbe morbide dove potrei sistemare il campo base, poi più in alto i campi successivi.
Attacco la montagna dal basso con in testa un’idea chiara su come conquistare la cima, poi scalando scalando mi accorgo che devo variare il percorso, che certe pareti sono troppo lisce per essere affrontate di petto. Ogni tanto (raramente) ho dovuto rinunciare. Un lavoraccio, insomma.
Forse per questo amo i racconti. Sono corse a occhi chiusi. Sono scatti di potenza. Non hanno bisogno di grandi sviluppi psicologici dei caratteri, di architetture complesse, ma di colpi di scena che ribaltano il corso degli eventi.
Fioriscono di notte, ma mentre sono lì che batto furiosamente sulla tastiera, il soffitto si fa più chiaro, gli uccelli cominciano a cinguettare, il camion della spazzatura a sbuffare all’angolo della strada e la luce smorta dell’alba inizia a premere contro i bordi degli scuri delle finestre.
Il tempo per il racconto è svanito, lo riprenderò la notte successiva. Allora mi alzo, prendo i cani e andiamo fuori a passeggiare.
(…) Ecco, se dovessi fare un paragone azzardato, il romanzo è una storia d’amore, il racconto è la passione di una notte.

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