I PUNTI OSCURI DELL’ARTICOLO 18
C’era il rischio di impuntature orgogliose sul fronte tecnico e strumentali sul piano politico. Le une e le altre sono state risolte dalla ferma presa di posizione di Bersani, dalla risolutezza di Monti, dalla non opposizione di Alfano e Casini. E però la scelta di “spacchettare al quadrato” gli ambiti di tutela si espone al rischio di contraddizioni interne che devono essere evitate.
1. Licenziamenti economici. Nella scrittura della norma è rimasta una coda molto scivolosa. Una parolina velenosa. Mentre nel licenziamento disciplinare l’assoluta infondatezza dell’addebito comporta giustamente che il giudice “condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro”, con riguardo all’analogo caso di “manifesta insussistenza” del motivo economico, si prevede soltanto che il giudice “può” disporre il reintegro. La disparità è evidente. Due licenziamenti fondati su inesistenti presupposti, strappato il velo del falso motivo, restano nudi nella loro identica illegittimità . Necessitano quindi di identica tutela. Inoltre resta da verificare il significato di “manifesta insussistenza”, perché si tratta di profili complessi come la riorganizzazione dell’impresa. E sugli stessi il giudice non può sindacare. Peraltro un’illegittimità manifesta non è certo più grave di una illegittimità nascosta, camuffata e solo più difficile da svelare. Certo non aiuta a capire la relazione di accompagnamento che a pagina 8 ancora esclude categoricamente l’ipotesi di reintegro(!).
2. Licenziamenti disciplinari. La norma, per come è congegnata, rischia di dare più tutela al lavoratore che abbia commesso fatti gravi rispetto a quello che sia incorso in comportamenti meno rilevanti. È l’effetto paradossale del carattere decisivo assegnato alla eventuale tipizzazione dell’illecito nella legge o nei contratti collettivi. Tipizzazione che può esserci per ipotesi più gravi e non per altre più lievi. Peraltro, se si mantiene il macchinoso rinvio ai contenuti dei contratti collettivi, deve escludersi che le nuove norme possano trovare immediata applicazione, in quanto quei contratti furono scritti senza immaginare questa funzione. Sarebbe davvero odioso dargliela ora, retroattivamente. Più lineare stabilire che il giudice è onerato di modulare la tutela in base alla gravità del fatto effettivamente commesso e accertato. Poche parole, molta chiarezza.
3. L’onere della prova. La legge vigente stabilisce espressamente che “l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”. Il disegno di legge non dice nulla di specifico al riguardo. Una volta che si è optato per una nuova normativa di estremo dettaglio, un rinvio espresso al principio di civiltà esistente, non guasterebbe. A scanso di equivoci.
Tre punti critici accomunati da un problema di fondo. Si cerca la flessibilità in uscita, non già innovando con equilibrio la disciplina sostanziale, ma incidendo obliquamente sulla tutela del lavoratore dinanzi a licenziamenti illegittimi. Un’impostazione bocciata (lo ha ricordato bene Barbara Spinelli) anche da riformatori come Massimo D’Antona. Peraltro una volta che si è scelto di incidere sulla tutela lo si deve fare con clausole generali; non con la pretesa di dettare ai giudici i contenuti delle specifiche decisioni. La realtà di ogni giorno è complessa e multiforme. Pretendere di mettere nella legge ogni sua sfaccettatura è un illusione che le regole di buona legislazione hanno da tempo abbandonato. Se ti avventuri su questo terreno è tutto più difficile. Da qui il delicato compito del Parlamento. Per dare al nuovo articolo 18 una necessaria coerenza interna. Per evitare, quando andremo ad applicarlo, di trovarci con più di qualche pasticcio. Una cattiva sorpresa per tutti, imprese e lavoratori. E proprio sul fronte della “prevedibilità “, che Monti ha indicato come il prioritario obiettivo “economico” della novella.
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