I pm: fondi usati per la famiglia Bossi

by Editore | 4 Aprile 2012 6:48

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MILANO — Rimborsi pubblici delle spese elettorali della Lega usati dal tesoriere «padano» Francesco Belsito per far fronte alle spese scolastiche di Renzo Bossi, pagare un’auto guidata da uno degli altri figli, liquidare le spese spicciole della moglie del Senatur o le esigenze di Rosy Mauro, insomma «i costi della famiglia in contante o con assegni circolari o contratti simulati»: «esigenze personali di familiari del leader della Lega Nord», il non indagato Umberto Bossi, certo «non riconducibili agli interessi del partito e contrarie ai suoi vincoli statutari». E poi altri e ben più robusti rimborsi elettorali che (come già  rivelato dal Secolo XIX) sono stati trasferiti per investimenti milionari in Tanzania e Cipro, ma che poi (come solo ora si scopre invece grazie alle intercettazioni) in parte sono rientrati in Italia per essere consegnati in contanti e per strada proprio al tesoriere leghista, addirittura dentro un cappello e in una scatola di vini appena poche settimane fa. 
Questi soldi, di cui Belsito intercettato asseriva di aver bisogno «per soddisfare esigenze di altri soggetti», ai pm milanesi Robledo-Pellicano-Filippini fanno ora ritenere che esistano «elementi inequivocabili», raccolti dai carabinieri del Noe, «circa il fatto che la gestione della tesoreria del partito sia avvenuta nella più completa opacità  fin dal 2004 e comunque, per quanto riguarda Belsito, fin da quando ha cominciato a ricoprire l’incarico di tesoriere», nel 2009, «alimentando la cassa con denaro non contabilizzato ed effettuando pagamenti e impieghi anch’essi non contabilizzati o contabilizzati in modo non veritiero». Con un risultato sensibilissimo: poiché un partito può sì spendere come preferisce i soldi dei suoi rimborsi elettorali ma deve presentare un fedele rendiconto ai revisori nominati dal Parlamento, il fatto che i rendiconti leghisti abbiano occultato «la gestione “in nero” (sia in entrata sia in uscita) di parte delle risorse affluite alla cassa del partito» fa sì che, per la prima volta, la Procura milanese esplori a carico del tesoriere Belsito la contestazione di «truffa aggravata ai danni dello Stato». Per cosa? Per i 18 milioni di euro che nell’agosto 2011 sono stati corrisposti alla Lega nel presupposto della validazione del rendiconto 2010, del quale ora «vi è la prova della falsità ».
Il segretario amministrativo leghista, che in serata si dimette nella sede di via Bellerio perquisita tutto il giorno al pari degli uffici di una delle segretarie di Bossi e della responsabile dei gadget «padani», si ritrova al centro delle indagini di tre Procure. La Guardia di Finanza e i pm di Milano indagano Belsito (fino al 2010 consigliere d’amministrazione di Fincantieri nella sua Genova, poi sottosegretario alla Semplificazione nel governo Berlusconi) anche per «appropriazione indebita» insieme a Stefano Bonet (imprenditore specialista di caccia a incentivi pubblici) e Paolo Scala (intermediario finanziario a Cipro), oltre che per «truffa allo Stato» (con Bonet) riguardo crediti d’imposta erogati a favore della società  di innovazione tecnologica Siram spa. I pm napoletani Woodcock-Piscitelli-Curcio procedono per l’ipotesi di «riciclaggio», con Bonet e altre tre persone. E lo stesso fa a Reggio Calabria il pm Giuseppe Lombardo, che per l’ipotesi di «riciclaggio» indaga sui rapporti tra Belsito e Romolo Girardelli, indicato come agevolatore della cosca di ‘ndrangheta De Stefano e come socio di Belsito (tramite il figlio Alex) in una immobiliare genovese.

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