I genitori dei nostri «desaparecidos» non mollano
«Ha parlato con mio fratello, sono sicura che si tratta proprio di lui». Dall’altra parte della cornetta, a Tunisi, parliamo con la sorella di Alì Benmabrouk Ayari, che aveva 23 anni quando il 30 marzo si è imbarcato verso l’Italia. Da allora non ha più dato notizie di sé. Ma la sua famiglia è convinta che sia vivo, e che sia in Italia.
Avevano già riconosciuto Alì in un video rintracciato su internet, e che mostra alcune persone che vengono portate al Centro di detenzione aperto a Milo – vicino all’aeroporto di Trapani – proprio nel 2011, in corrispondenza con l’ondata di arrivi dopo le rivolte arabe e la guerra in Libia. Adesso la loro speranza è rinfocolata dal fatto di aver parlato con un ragazzo espulso verso Tunisi la settimana scorsa proprio dal Cie di Milo. Che gli avrebbe dato la notizia che aspettavano: «Ci ha spiegato che mio fratello si trova nel Centro di espulsione, a Trapani. Per fortuna lo abbiamo trovato». Ma è così? Al Cie quel nome non esiste, e neanche quella data di nascita. Alle pareti del centro hanno appeso le foto inviate dal consolato tunisino (solo 20-25 per la verità , ma qui si parla di almeno 250 persone….) e nessuno è mai stato riconosciuto.
Questo è solo uno degli altri tasselli di un puzzle complicato e delicato. La storia è questa: a marzo dell’anno scorso sono partite migliaia di ragazzi tunisini alla volta dell’Italia, la stragrande maggioranza dei quali è sbarcata a Lampedusa e poi è stata trasferita in campi di fortuna allestiti per rispondere all’emergenza. Dall’altra parte del mare, in Tunisia, c’erano i genitori di questi ragazzi – spesso giovanissimi – che nel dramma della partenza aspettavano una telefonata. Telefonata che non è mai arrivata.
Tutti morti? Forse. Eppure questi genitori, che si sono riuniti in coordinamento, hanno con sé foto e video in cui giurano di riconoscere i propri figli. E perché poi esistono voci – mille voci – come quella del rimpatriato che alimentano la speranza.
«Diteci dove sono i nostri figli», chiedono questi genitori, che sono rappresentati da una delegazione di quattro parenti arrivati in Italia tre mesi fa. «Da una sponda all’altra: vite che contano» è la campagna italiana che tra Milano e Roma li sostiene. E che chiede che i governi italiano e tunisino si prendano la responsabilità e l’impegno di dare una risposta. Perché non si può sparire nel nulla. E non a centinaia. Proprio di questo si parlerà a Bari domani, in un convegno organizzato dal Centro per la riforma dello Stato in collaborazione con la Regione Puglia che ha come obiettivo la ricostruzione di un memoriale di donne e uomini sulle rotte delle migrazioni.
La campagna italo-tunisina è stata talmente efficace da riuscire a smuovere le diplomazie. E ora il Viminale sta lavorando alacremente per confrontare le impronte che sono state spedite dalla Tunisia con quelle contenute nei database italiani. Ne sono arrivate 142. Poi 112. I genitori erano convinti che questo fosse il modo più sicuro per avere un’informazione definitiva. L’unica cosa che desiderano. Invece, la doccia fredda è arrivata nei colloqui che hanno avuto con il ministero dell’Interno, durante i quali è emerso che le ricerche sono scrupolose. Ma che in quel marzo maledetto i buchi nel sistema di controllo italiano sono stati molteplici. E dunque possono esserci casi di persone che, sbarcate a Lampedusa r poi trasferite da qualche altra parte, siano riuscite a scappare senza essere identificate.
Comunque, il controllo sulle impronte è fondamentale. E il risultato molto atteso. Solo che anche questo tarda ad arrivare. Non si sa se per ritardi da parte italiana o per reticenze da parte tunisina. Intanto girano notizie non controllate: che delle 142 impronte una sarebbe risultata positiva. Che cinque «identità » invece risultano censite, ma nel 2010. I genitori aspettano, sempre più convinti – anche grazie a questi «misteri» – che i figli siano vivi e trattenuti chissà dove in Italia. Per questo vorrebbero saperne di più sui Centri di espulsione, vedere cosa sono, poter entrare per mostrare ai tunisini rinchiusi lì dentro le foto dei loro figli. Ma, finora, le porte per loro sono sempre rimaste chiuse.
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