I colori impastati della preveggenza
L’ultimo raccolto (The Last Harvest), titolo della mostra dedicata all’arte pittorica di Rabindranath Tagore, in corso fino al 27 maggio alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, è un preciso riferimento al fatto che il poeta bengalese si dedicò alla pittura in età avanzata, all’incirca negli ultimi dodici anni della sua vita. Come Gandhi, Tagore rappresenta un’icona dell’India moderna: il suo premio Nobel del 1913, il primo nella storia conferito a un autore non europeo, ha segnato l’ingresso dell’Asia nella scena culturale internazionale moderna. Tuttavia, della sua molteplice attività , non solo come poeta, ma anche come narratore, saggista, drammaturgo, musicista e pittore, in Italia si conosce poco. E se ciò può essere comprensibile per il canzoniere (Rabi sangit), oltre 2500 canzoni non di facile ascolto per il pubblico occidentale, lo è assai meno per disegni e dipinti che parlano il linguaggio universale delle immagini.
La mostra romana può colmare in parte la lacuna, ma certo le opere esposte pongono una serie di problemi interpretativi. Due sono gli aspetti fondamentali da considerare analizzando questo singolare tracciato artistico. Il primo è il carattere di sperimentazione della pittura di Tagore, che la avvicina alle correnti artistiche internazionali del Novecento. Il secondo riguarda le difficoltà cui il poeta, anziano e minato nella salute, andò incontro negli anni Trenta per far accettare la sua arte in India. Egli era talmente consapevole delle resistenze che avrebbe incontrato, che per mesi non fece vedere a nessuno i suoi lavori, né volle firmarli. Nel dicembre 1929 disse all’amico Suniti Chatterji: «Vivo o morto, non renderò mai pubbliche queste creazioni nel mio paese. Non sarà concesso ai miei quadri di essere esposti allo stesso oltraggio delle mie altre opere». Una dichiarazione in cui si avverte l’amarezza di un uomo profondamente convinto di non essere compreso dai suoi contemporanei, malgrado i riconoscimenti internazionali e l’orgoglio nazionalista che tali riconoscimenti avevano suscitato in Bengala e nel resto dell’India.
L’arte visuale costituisce la sua ultima fase creativa, i quadri sono creature che egli sente ben più fragili della sua scrittura. Presenterà i dipinti per la prima volta a Parigi nel maggio 1930 alla Galerie Pigalle, grazie all’aiuto della poetessa argentina Victoria Ocampo, sua amica. A Monaco di Baviera, nel luglio di quell’anno, Tagore dichiarerà alla stampa: «La poesia è per i miei connazionali, i dipinti sono il mio dono all’Occidente».
Una successione di lutti
Chiunque si accosti all’opera grafica e pittorica di Tagore è colpito dal fatto che egli abbia cominciato a dipingere alla soglia del settantesimo anno di età . Fatto tanto più straordinario se si tiene conto che egli è vissuto in contesti fortemente segnati dalle arti visive. Sin dall’infanzia, nella casa di famiglia a Jorasanko, vecchio quartiere di Calcutta, è circondato da pittori: i cugini di secondo grado, Abanindranath e Gaganendranath Tagore, gli astri del modernismo bengalese che lo chiamano «zio», i loro discepoli, Jaimini Roy e Nandalal Bose e molti altri. Aggiungiamo pure uno dei suoi mentori in Europa, il pittore William Rothenstein. Tutti questi personaggi gli parlano di pittura e di estetica, tutti sperimentano nuovi stili. Tagore si esprime con le parole e la musica, ma qualcosa lentamente sedimenta dentro di lui.
Intanto, la sua vita è funestata dai lutti. Nell’arco di cinque anni, tra il 1902 e il 1907, perde cinque persone care: la moglie Mrinalini Devi, la figlia tredicenne Renuka, il giovane poeta e amico Satishchandra Roy, il padre Debendranath, figura mitica della cultura bengalese. Muore infine di colera Sami, il figlio più piccolo, e forse per lui è il colpo peggiore, ma non l’unico: la primogenita, Bela, sarebbe morta nel 1918, dei suoi cinque figli ne sopravvissero solo due, Rathindranath e Mira.
Un’altra perdita che segnò il poeta nel profondo fu quella di Kadambari Devi, la giovane cognata morta suicida il 19 aprile 1884. Le biografie hanno tutte sottolineato come ella fosse la cognata preferita del giovane Rabindranath e come avesse svolto nei suoi confronti un ruolo quasi materno dopo la morte della madre, scomparsa nel 1875, quando Tagore non era ancora quattordicenne. Per diverso tempo minore attenzione è stata prestata al fatto che Kadambari, nata nel 1860 o forse nel 1859, aveva solo uno o due anni più di Rabindranath. Quando si tolse la vita, senza lasciare una spiegazione del gesto, aveva circa venticinque anni. Di congetture se ne sono fatte molte. Il suicidio avvenne circa quattro mesi dopo il matrimonio del poeta con Mrinalini e ipoteticamente il dramma potrebbe essere inquadrato nel triangolo affettivo che sovente lega la giovane sposa, entrata nella famiglia «patriarcale» del marito, al cognato più giovane. Il legame funziona tanto meglio, quanto più giovane è la sposa e quanto più si senta trascurata dal marito. Tuttavia tale quadro non può trovare sempre applicazione, tanto meno in un contesto così fuori dall’ordinario come quello della famiglia Tagore. Se la coincidenza del suicidio di Kadambari con il matrimonio di Rabindranath non si può ignorare, si può ragionevolmente escludere che ci fosse competizione tra la giovane colta e attraente e la sposa Mrinalini che aveva appena dieci anni, secondo l’uso indiano delle spose bambine.
La sposa bambina
Debendranath Tagore la scelse per il figlio più giovane, talentuoso e sognatore, in ossequio a una tradizione che voleva che gli uomini della famiglia Tagore sposassero donne di casta bramina Pirali. Tutti i matrimoni allora erano combinati, l’amore, come lo s’intende in Occidente ai giorni nostri, contava assai poco. Il Maharishi, o Grande Veggente, come veniva chiamato il padre del poeta, che, in quanto leader del Brahma Samaj, era di vedute progressiste (e non sempre) in materia di filosofia e religione, era terribilmente conservatore in tutto ciò che riguardava le consuetudini sociali. Lo stesso Rabindranath osteggiò più volte, anche con il mezzo della poesia satirica, la piaga delle spose bambine; ma per tutta la vita lui e i suoi brillanti fratelli piegarono la testa davanti al volere del padre, padrone e santone.
Anche Kadambari era una bramina Pirali. Aveva nove anni quando nel 1868 sposò Jyotirindranath, uno dei fratelli maggiori del poeta che all’epoca ne aveva circa diciannove. Jyotindranath era il fratello cui Rabindranath era più affezionato. Dotato di talento per la musica e il teatro, si dedicò – forse per amore della nascente industria nazionale – agli affari, per i quali non era tagliato, e perse somme ingenti. Kadambari era appassionata di letteratura. Il giovane Rabindranath passò con loro buona parte della giovinezza a Calcutta, nell’India occidentale e in una splendida vacanza a Karwar, non lontano da Goa. Tra loro tre era l’idillio, fatto di musica, canzoni, poesia. La vicenda del rapporto tra Kadambari e Rabindranath, del loro possibile amore, è stata catturata con grazia dal regista Satyajit Ray nel film Charulata, basato sul racconto dello stesso Tagore Nashtanirh (1901). È un’atmosfera carica di tensione erotica quella che circonda i due giovani, una tensione tuttavia che resta legata all’ideale di situazioni immaginarie.
Le cause del suicidio di Kadambari rimarranno ignote, ma furono senz’altro molteplici: il fatto di non avere avuto figli, un dramma per una donna in quella società tradizionale; il tracollo finanziario del marito, e forse ancor di più il fatto che gli si attribuisse una relazione con un’attrice del tempo. Anche il rapporto con il cognato giovane, che diventando uomo doveva allontanarsi da lei, era una nota dolorosa, cui doveva aggiungersi il rapporto non facile con le altre donne di famiglia.
Un’utopia cosmopolita
In ogni caso, nella sua prima autobiografia del 1911 il poeta scrive che con la scomparsa di Kadambari la morte aveva fatto il vero ingresso nella sua vita: «Il dolore di quel giorno dovevo portarlo perennemente inalterato nel cuore. Non avevo mai pensato che ci potesse essere una interruzione nella catena di gioie e dolori della vita; l’avevo accettata così come si presentava in tutto e per tutto, e non potevo vedere nulla al di là di essa. Ma quando, improvvisa, venne la morte, e in un momento apparì uno strappo in quel tessuto tutto eguale, io ne rimasi sbalordito. Gli alberi, la terra, il suolo, le acque, il sole, la luna, le stelle, tutto intorno restava immutabile e vero, come prima, eppure la persona che fra tutte queste cose era ugualmente una realtà , e che anzi, per i mille punti di contatto con la mia vita, con la mente e col cuore, era per me più vera e reale d’ogni cosa, era svanita in un momento, come un sogno».
Come egli stesso spiega, la sua concezione filosofica e religiosa della vita lo aiutò a superare lo sconforto. Gli anni della maturità furono densi di idee e di impegni: il premio Nobel, la fondazione dell’Università di Shantiniketan (1921), i suoi tour internazionali e le conferenze per diffondere le idee di pace dopo i disastri della prima guerra mondiale, i suoi rapporti con intellettuali di tutte le nazioni e, in ultimo, quella sua utopia di voler costruire attraverso la cultura un mondo di comunicazione, dove Oriente e Occidente potessero incontrarsi e darsi reciprocamente il meglio. Tutto questo lo impegnò per quasi vent’anni, al termine dei quali ritrovò nel Bengala rurale l’ispirazione per una riflessione profonda, a tratti amara, sulla vita e sulla storia, espressa non solo a parole, ma anche per immagini.
Ecco dunque emergere tra i ricordi il volto delle persone care scomparse. A Nandalal Bose, il grande pittore suo amico che gli chiede chi sia mai il volto misterioso di donna che compare continuamente nei suoi quadri, risponde che potrebbe essere Kadambari «i cui occhi splendenti si presentano tanto spesso alla mia vista». Queste parole, riportate dall’artista e pubblicate più di trent’anni dopo, hanno costituito probabilmente il punto di partenza per tante interpretazioni dei quadri di Tagore. Di Kadambari il poeta scrisse tutta la vita, la sua presenza aleggia in molti componimenti negli anni successivi alla sua morte e anche nel decennio 1891-1901, un periodo cruciale nell’evoluzione della sua poesia, quando Tagore, per ordine del padre, si trasferì a Shelidah nel Bengala orientale (oggi in Bangladesh) per curare i possedimenti di famiglia. Ma la memoria della cognata bambina sembra rivivere nei versi di Akashpradip, una delle sue ultime poesie (8 aprile 1939): «Cerco, esitante, di farmi vicino/ a lei, vestita/ di un sari a strisce,/ mentre turbina la mia mente./ Ma il suo cipiglio/ non lascia dubbi:/ io bambino,/ non ero bambina,/ ero una razza diversa».
Tuttavia, cogliere dell’opera del poeta bengalese solo gli aspetti elegiaci sarebbe riduttivo. Non c’è dubbio che nei versi di Tagore ci sia molto altro: l’espressione della sua concezione filosofica, improntata al teismo del Vedanta, ma attratta dalla devozione popolare visnuita; il suo vitalismo a tratti allusivamente erotico; la ricerca della bellezza del suono nella forma lirica e soprattutto la dimensione folklorica. È noto il rapporto che ha legato la poesia e la musica di Rabindranath al mondo dei Baul, menestrelli delle campagne bengalesi, la cui tradizione, allora principalmente orale, parla di una devozione istintiva, che non distingue tra la fede indù e quella musulmana della gente dei villaggi. Tagore ha sperimentato i loro suoni e i loro temi e anche per questo oggi, lui induista, è considerato il poeta nazionale del Bangladesh, paese a prevalente maggioranza islamica.
Non si capisce, quindi, perché un’analoga interpretazione riduttiva dovrebbe essere applicata all’opera pittorica di Tagore, tanto più che in essa i temi sono molti. Senza voler negare il peso della melanconia sulla sua vita, molte delle sue opere pittoriche sembrano rispondere esclusivamente a un bisogno creativo. Anche nella pittura la dimensione folklorica per Tagore è fondamentale.
Un folklore reinventato
Negli stessi anni il folklore dei contadini bengalesi ispira una nuova fase creativa nel pittore e amico Jaiminy Roy. Tagore non dipinge secondo le forme tradizionali, ma cerca di coglierne gli aspetti essenziali. I suoi soggetti umani sono sempre abitanti dei villaggi. Tagore introduce un elemento di verticalità , che nel folklore indiano è presente nella rappresentazione del mondo mitologico di alcune popolazioni tribali. La verticalità della figura umana trova una corrispondenza significativa con l’albero, che riveste sul piano simbolico, ma anche su quello reale, un peso importante nella cosmologia e nell’ecologia dell’India antica.
La folla di ritratti rimanda alle molte manifestazioni del Brahman, del quale, per il Vedanta, ma anche per il fisico Erwin Schrà¶dinger, gli individui di ogni specie rappresentano le molte sfaccettature. L’autocoscienza di cui parlano i filosofi sarebbe dunque questo: comprendere la molteplicità dell’essere e superare la coscienza limitata dell’Io. Come rappresentarla per immagini, se non attraverso una folla di volti e di corpi che si sovrappongono, e che possono essere assimilati agli animali e alle piante?
Dare un giudizio definitivo sull’arte di Rabindranath Tagore è un esercizio inutile, la sua opera non si presta a essere affrontata su un unico versante. Fu quello l’errore di molti critici occidentali che vollero vedere in lui solo il saggio venuto dall’Est. Ma la più utile e aggiornata biografia in inglese del poeta, scritta da Krishna Dutta e Andrew Robinson, si intitola significativamente Rabindranath Tagore: The Myriad-Minded Man. Questa locuzione, che nella nostra tradizione letteraria potrebbe suonar bene come «uomo dal multiforme ingegno», fu usata da Coleridge come omaggio al genio di Shakespeare. Suona bene anche come omaggio al genio di Rabindranath Tagore.
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Il compromesso è la cosa migliore che ci sia. Fu Albert Einstein a dire che gli unici compromessi inammissibili sono quelli «sordidi» . Per il resto i compromessi sono indispensabili. Indispensabili sì, nonostante alcuni di essi siano patogeni. Del resto anche i batteri sono patogeni, ma con cure adeguate possiamo limitare il danno. È sbagliato, dunque, dichiararsi ostili al compromesso. I compromessi loschi, sleali o sporchi sono sì riprovevoli, ma non al punto da dover essere evitati in tutti i casi. In particolare non devono esserlo quando la posta in gioco è la pace.
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