I batteri dell’Antartico

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In seguito alla scoperta di alcune specie di ceppi batterici tossici, varie nazioni hanno deciso provvedimenti drastici: smaltire i liquami fecali dei propri bagni in inceneritori sul luogo, per ridurre la contaminazione e cercare di non alterare ulteriormente i delicati ecosistemi costieri polari. Di recente però un gruppo di microbiologi dell’università  di Uppsala (Svezia) ha trovato altri pericolosi ceppi batterici nei residui fecali dei centri di ricerca cileni Bernardo O’Higgins, Arturo Prat e Fildes Bay. Fra i 10 e i 300 metri di profondità , nelle gelide acque di queste tre stazioni costiere (che non hanno un sistema di smaltimento dei rifiuti), hanno trovato dei ceppi di Escherichia coli intestinale che hanno incorporato un enzima tipo Esbl – che neutralizza e distrugge penicillina, cefalosporina e la maggior parte degli antibiotici conosciuti. 
A parte registrare questa nuova curiosità  biologica, la cosa preoccupante è che questo ceppo batterico, già  catalogato come Ctx-m, può sopravvivere nei freddi ecosistemi polari adattandosi e cambiando continuamente animale ospite, esseri umani inclusi. A prima vista gli intestini dei pinguini sarebbero esclusi dall’essere vettori potenziali, mentre i gabbiani sarebbero portatori attivi. Anche se i batteri sono comunità  viventi generose, che condividono tra loro dei geni quando questi sono necessari alla propria sopravvivenza, l’incremento esponenziale di diverse specie di patogeni resistenti agli antibiotici è un problema di salute pubblica mondiale. E la ricerca per sapere dove si trovino i serbatoi naturali di geni di resistenza agli antibiotici nelle comunità  batteriche è diventato un colossale business. Nel 2010 microbiologi dell’Università  di Wisconsin avevano iniziato a estrarre ceppi di batteri e archeoresistenti nei suoli dei permafrost delle isole in Alaska e dello Yukon canadese, congelati nella terra da più di 30mila anni. Un altro team dell’università  dell’Ohio aveva individuato nella superficie degli iceberg in Groenlandia un tobamovirus; quando lo hanno scongelato in laboratorio hanno scoperto che questo patogeno era riuscito a sopravvivere per 140mila anni nel ghiaccio polare.
La nuova scoperta in Antartide ha già  mobilitato alcune imprese private contrattiste dell’industria tecnologica militare, in pista per isolare e brevettare il corredo cromosomico di questi batteri polari, in particolare i pezzi di Dna che codifica questo enzima. Lo stesso era avvenuto nel 2008, quando, in nome dello «sviluppo biotecnologico e per il benessere dell’umanità » patologi e batteriologi avevano riesumato sette cadaveri congelati di pescatori e marinai morti nel 1918 nelle isole artiche Spitzbergen; dai loro tessuti polmonari e intestinali isolarono i letali ceppi di virus dell’influenza «spagnola», la tristemente celebre pandemia che fece 40 milioni di morti. 
La ricerca su agenti biologici potenzialmente letali è in pieno sviluppo, e per molti versi è sconcertante. Come il recente Strategic environmental research & development programme avviato dal Dipartimento alla difesa degli Stati uniti, che ha stanziato fondi per mettere a punto «processi verdi e ambientali per produrre nuovi esplosivi» e «produrre nuove molecole o adattarle da materie prime di origine naturale». Qualcuno pensa che si tratti di una strumentalizzazione della cultura ecologica, e di un nuovo green business: altri sono certi che queste ricerche (e brevetti) rispondano alla necessità  di inventare armi sempre più letali.


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