Herta Mà¼ller “Io, scrittrice da nobel per caso volevo fare la parrucchiera”

by Editore | 5 Aprile 2012 3:16

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Berlino – Alla Casa della letteratura, dove abbiamo appuntamento, Herta Mà¼ller arriva in ritardo e sovreccitata. «Io che sono di una puntualità  maniacale… Ero assorbita da un collage, capisce. In questi ultimi tempi, appena mi sveglio mi butto sull’ultimo collage in corso: in questo momento è una storia di mosche e macellai. Sono ossessionata da questa maniera di scrivere, mi assorbe completamente. Stamattina ero in pigiama a lavorare con le forbici e non mi sono resa conto del passare del tempo».
Non si fa fatica a immaginarla, Herta Mà¼ller, con le sue grandi forbici mentre seziona membra di frasi, le ritaglia a rondelle e ricuce insieme queste «parole rubate un po’ dappertutto, nei giornali, nelle riviste di moda o nel catalogo Ikea», divertendosi a vedere «l’ultratriviale e l’ultraletterario» che si scontrano fra di loro, reinventando ogni giorno quella lingua acuminata e poetica che le ha fruttato il premio Nobel nel 2009.
Due anni fa la Casa della letteratura (Literaturhaus), a Berlino, proponeva un’importante retrospettiva su Herta Mà¼ller, che esibiva contemporaneamente dei manoscritti delle sue opere – più di una ventina, di cui soltanto cinque tradotte in francese (quattro in italiano, ndt) – e dei campioni dei suoi collage. Che differenza passa, per lei, tra le une e gli altri? «Nessuna. In entrambi i casi, si tratta di creare un senso tagliuzzando il tessuto delle parole. Ritagliare, rovesciare, mettere del bianco intorno… I miei libri spesso li passo e ripasso più di una decina di volte. Sfrondo il più possibile. Stilografica o forbici è la stessa cosa, arrivo allo stesso risultato».
Il risultato è un’opera che racconta, instancabilmente, la quotidianità  della dittatura. La paura, il mattino al risveglio, di non esserci più la sera a cena. La paura dell’interrogatorio, delle perquisizioni. La paura dell’umiliazione, del passo falso, degli informatori, della solitudine, della follia, dell’esilio. Nata nel 1953 nel paesino germanofono di Nitzkydorf, in Romania, Herta Mà¼ller appartiene alla minoranza sveva della regione del Banato. Erede di quelle generazioni di tedeschi insediatisi laggiù, nelle terre di frontiera dell’Impero austro-ungarico, fin dal Settecento, Herta è cresciuta in un ambiente tedesco, imparando il rumeno a scuola «come una lingua straniera». Nel 1945, come numerosi rumeni di lingua tedesca, sua madre viene deportata per cinque anni in un campo di lavoro sovietico. In età  adolescenziale scopre che suo padre, come la maggior parte degli uomini di Nitzkydorf, ha combattuto nelle Waffen SS durante la Seconda guerra mondiale. E che, come gli altri, continua a vivere al «ritmo delle sbronze e delle canzoni in onore del Fà¼hrer». «A 17 anni ho voluto rompere con quella comunità », dice. «Sono entrata nell’Aktionsgruppe Banat, un gruppo politico che si batteva per la libertà  d’espressione».
Negli anni 70, in piena dittatura di Nicolae Ceausescu, una scelta del genere comporta chiaramente dei pericoli. Herta Mà¼ller viene rapidamente licenziata dalla fabbrica in cui lavora. Motivo: «Rifiuto di collaborare con la Securitate». Da quel momento viene costantemente sorvegliata (lei usa addirittura la parola «accerchiata»). Non c’è bisogno di insistere più di tanto per avvertire il senso di prostrazione psicologica che provava lei a quell’epoca. Ich war total kaputt, riassume Herta. «Distrutta, sull’orlo dell’esaurimento. Non facevo più differenza tra il pianto e il riso. Se non me ne fossi andata, sarei morta». Le chiediamo se come Lola, una della protagoniste de Il paese delle prugne verdi, abbia mai pensato al suicidio. «Sì, naturalmente, ma non ne parliamo più». I suoi occhi azzurri si inumidiscono. Non ne parliamo più.
È in un contesto storico sorprendente che Herta Mà¼ller ottiene, nel 1987, il diritto di espatriare in Germania. In quel periodo il regime comunista vendette, non si può usare altro termine, la sua comunità  tedesca al Governo del cancelliere Helmut Schmidt. Un singolo individuo veniva venduto per circa 5.000 marchi. Herta non dice esplicitamente se fu oggetto di un mercanteggiamento di questo genere. Dice soltanto: «Non sono mai tornata a Nitzkydorf e non ci tornerò mai più. Ci sono con i miei libri e questo basta. La mia testa ci ritorna, i miei piedi no».
Quando le chiedo perché, più di vent’anni dopo la morte di Ceausescu, le sembra necessario scavare, ancora e ancora, fra le devastazioni della dittatura, lei fa tanto d’occhi. «Lei crede che quei danni ormai siano cose del passato? Non capisce che se oggi rinascono tentazioni autoritarie nell’Europa dell’est è proprio perché quel passato è sempre stato taciuto?». Parliamo di quello che è successo a Marius Oprea, lo storico rumeno soprannominato «il cacciatore di agenti della Securitate». Nel 2005 Oprea, ispirandosi al Centro Simon Wiesenthal, ha creato l’Istituto di investigazione sui crimini del comunismo rumeno. Si è mostrato troppo curioso nelle sue inchieste? Nel 2010 le autorità  lo hanno sollevato dal suo compito. «Lo vede», dice Herta Mà¼ller, «un’altra battaglia vinta per le strutture del vecchio regime…».
Torniamo a lei e alla sua maniera così particolare di evocare un clima politico partendo dalle cose più minute. Le piante, ad esempio, di cui conosce i nomi a memoria. «Nella mia infanzia solitaria parlavo con le piante, le sposavo addirittura. Mi interessavano più i fili d’erba che i paesaggi». Riflette e poi aggiunge: «Per me ci sono due categorie di persone nella vita: quelle che si sentono protette dal dettaglio, dalla singolarità , e quelle che amano i panorami, come Hitler. Io detesto i grandi paesaggi, ho sempre l’impressione che vogliano inghiottirmi».
E gli oggetti? Perché gli oggetti sono onnipresenti nella sua opera? Perché sono rassicuranti? O perché non tradiscono? E perché certi oggetti in particolare? Ne Il paese delle prugne verdi c’è una vera e propria ossessione per le forbici. Ancora le forbici! Spuntano ovunque a squarciare il tessuto della prosa. Cesoie, lame per sgozzare gli animali, forbicine per le unghie, forbici da parrucchiere, forbici da sarta… Viene in mente Nathalie Serraute, a cui Herta Mà¼ller in certi casi è stata paragonata (silenzio, ellissi, arte del non dire…). Anche la Serraute aveva un rapporto speciale con le forbici. In Infanzia parla di un’illustrazione di Pierino Porcospino, il grande classico tedesco della letteratura per bambini scritto dal dottor Hoffmann nel 1845. La piccola Nathalie aveva talmente paura di questo disegno che aveva chiesto a sua madre di incollare le pagine, così non l’avrebbe visto mai più…
Le forbici hanno una valenza fantasmatica altrettanto accentuata per Herta Mà¼ller? Lei sorride. No, per lei richiamano una storia completamente diversa. «Dopo la fabbrica, volevo diventare parrucchiera», racconta. «Ma era impossibile. Quel tipo di negozio era controllatissimo dai servizi segreti, sono dei posti influenti, dove si viene a sapere tutto della vita delle persone. Perciò mi hanno dissuaso dal fare la parrucchiera, mi hanno detto che avevo studiato, che quel mestiere non sarebbe stato adatto a me…». Com’è che è diventata scrittrice? «Per una serie di casualità ». Sta scherzando? Non ha sempre voluto scrivere? «Niente affatto. Avevo un bisogno interiore di scrivere. Un bisogno di ancorarmi. Ma non ho mai voluto diventare scrittrice. Una messa in prosa o una messa in piega, è lo stesso…». Va bene. Ma… una magari resterà , l’altra no. Herta quasi si indispettisce. «Sarebbe molto meglio se potessimo portarci via tutto quando moriamo. Diffido dell’eternità . Le cose che restano mi fanno paura».
(Traduzione di Fabio Galimberti) 
© Le Monde

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