Gli apprendisti stregoni del modello americano

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Come avverebbe se si privatizzassero i partiti e si rinunciasse al tentativo – coessenziale alla democrazia – di impedire che le differenze economiche si travasino nella sfera politica. Di qui un giudizio durissimo sul sistema statunitense.
Il carattere esemplare dell’articolo deriva non solo dai suoi contenuti, ma dal fatto che un problema spinosissimo per il groviglio di rancori e di istintività  che suscita è trattato da un punto di vista di principio, che illumina la vera e radicale posta in gioco, sottoponendola a una trattazione razionale; senza mescolare i sentimenti personali con i dati di filosofia, e di scienza, politica. L’alternativa è secca. Chi – anche mosso da buoni sentimenti – ha scherzato col fuoco dello Stato senza partiti, o dei partiti che si montano per il tempo della campagna elettorale e si smontano il giorno dopo (i gazebo), o dei partiti sherpa, non può restare nel grigio. L’immagine degli sherpa è terribile, giacché l’accento cade non sulla nobiltà  di quei valorosi montanari, ma sul loro essere portatori a pagamento. Chi sostiene – eventualmente in funzione “terapeutica” – la sostanza delle posizioni antipolitiche deve essere chiaro sul tipo di democrazia che vuole: se caratterizzato o no dallo schiacciamento dell’uguaglianza politica da parte della disuguaglianza economica. 
Non si può replicare a chi denuncia la gravità  e l’attualità  del pericolo ripetendo la semplice – e in sé vera – affermazione per cui l’antipolitica è il frutto della cattiva politica. Non occorre essere dei complottisti per ritenere che lo sviluppo politico non evolve spontaneamente, casualmente, allo stato brado, ma che è coltivato; e che i partiti sono lungi mille miglia dall’essere i monopolisti di questa programmazione. E non occorre essere ammalati di dietrologismo per constatare che i maggiori giornali trattano del problema della corruzione e dei costi della politica in modo indistinto, riferendosi – appunto – “ai partiti”, come se si trattasse di una realtà  assolutamente omogenea, un monoblocco che non merita alcuna distinzione interna. Questo – dell’uguagliamento di tutti i partiti (nella detestabilità ) – è un dato di fatto inoppugnabile del linguaggio di questi tempi: e non deriva affatto da una uguale cattiva politica. Coloro che l’hanno usato ci hanno messo del loro. E non potevano non sapere. Perché incontrovertibili sono le conseguenze che ne derivano: che i partiti devono essere privatizzati; che il metodo in vigore negli Stati uniti deve essere importato; che è assurdo anche solo immaginare i partiti come strumenti che creano un contesto di autonomia della politica rispetto all’economia. Anche la Chiesa si è aggiunta: il vescovo di Torino ha dichiarato che i partiti devono essere finanziati con un meccanismo simile all’8 per mille. Non si capisce che cosa c’entri il mistero di Cristo con il finanziamento dei partiti; ma i “cattolici”, oggi, in materia di distinzione tra politica e fede sono piuttosto di bocca buona. I richiami di Alfredo Reichlin sull’Unità  del 14 aprile sono dunque più che ragionevoli. La polemica sul finanziamento ai partiti è una polemica omologante; e l’omologazione rende inutile l’alternativa. Due più due fa quattro. L’inutilità  di un’alternativa politica dopo le pur disgraziatissime, umilianti e rovinose esperienze passate: è questo il filo conduttore non solo di chi può pensare di svolgere una regìa, ma anche delle posizioni di quelli che non si riconoscono in nessuno degli attuali soggetti politici. 
Ne I poteri selvaggi Luigi Ferrajoli dedica un paragrafo alla spoliticizzazione di massa e alla dissoluzione dell’opinione pubblica, che si compendiano nel primato degli interessi privati. Dopo aver analizzato le molteplici forme che assume il fenomeno, e le relative cause, conclude con queste parole: «Si aggiunga una specifica forma di qualunquismo nell’elettorato di sinistra: quel particolare primato dell’interesse e della vanità  personale che si manifesta nel rifiuto di votare per partiti che non riflettano pienamente le proprie idee. L’astensionismo, in omaggio a una propria decantata purezza e indisponibilità  al compromesso, è la forma che assume questo qualunquismo narcisistico, che sia pure per ragioni opposte a quelle del qualunquismo e dell’astensionismo di destra si manifesta nell’idea che tutti i partiti, di destra e di sinistra, si equivalgono e nella sostanziale indifferenza per l’interesse generale, anche a costo di favorire derive antidemocratiche, autoritarie e razziste. È un qualunquismo sotto un certo aspetto più deplorevole di quello di destra: perché non è determinato dall’ignoranza e dalla disinformazione, ma dall’irresponsabilità  morale e politica».
Ma la condanna vale solo per gli individui, e solo per l’astensionismo? Se no, dove finisce il narcisismo individualistico e dove comincia la irresponsabilità  politica? La questione, a sinistra, dovrebbe essere ben dibattuta. E si dovrebbe riconoscere che la responsabilità  consiste nel dichiarare le opzioni etico-politiche che si è deciso (con un atto che coinvolge l’intera persona) di sostenere; e di difenderle nel conflitto politico: qui ed ora e per quanto è ragionevolmente possibile ed efficace. Hic Rhodus, hic salta.


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