FUORI DAL GHETTO AMORE E LOTTA, LA LEZIONE DI EDELMAN A VARSAVIA

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Il 1° maggio del 1943, nel ghetto di Varsavia in cui un pugno di giovani donne e uomini era insorto contro l’armata nazista, si cantò l’Internazionale. C’era l’amore nel ghetto, e c’era la lotta. La lotta, Marek Edelman, il leggendario vicecomandante di quella inaudita insurrezione, la raccontò già  alla fine della guerra, quando aveva 26 anni. Per raccontare l’amore avrebbe aspettato molto a lungo, forse per pudore, e quando lo fece aveva 89 anni.

Non ci si aspetta di trovare il desiderio sessuale e l’amore nel ghetto della strage quotidiana, della fame, del terrore e della deportazione. Ma non ci si aspettava nemmeno di trovarci la lotta, la resistenza. Non se l’aspettavano i nazisti, gonfi di onnipotenza militare e di ferocia, e furono tenuti in scacco per venti giorni da pochi combattenti malissimo in arnese. Il mondo non aveva ancora assistito a una ribellione contro la macchina da guerra tedesca. Furono due scandali, l’amore e la lotta nel ghetto, le cose escluse dal conto che invece avvennero, l’una nutrita dell’altro. E se raccontò l’amore solo dopo aver aspettato tanto, Edelman gli attribuì il riconoscimento più alto.

Edelman era figlio del Bund, il partito degli ebrei socialisti che si prendeva una cura materna della vita dei suoi e compensava l’intransigenza col nemico con l’anticipazione di una solidale vita comune. Il Bund, in dissenso coi sionisti, non cercava una patria diversa dalla terra in cui la sua gente viveva, a cominciare da quella Polonia che annoverava la più vasta comunità  ebraica. Shmuel Zygielboym, rappresentante bundista presso il governo polacco in esilio a Londra, aveva speso ogni forza perché il mondo volesse reagire, e almeno riconoscere la tragedia del suo popolo, e quando seppe della fine dell’insurrezione del ghetto scrisse una lettera e si uccise. «Non mi è stato dato di cadere come loro, assieme a loro. Ma appartengoa loroe alle loro tombe… La mia vita appartiene al popolo ebraico in Polonia, quindi gliela dono. Desidero che quei pochi salvati finora dei milioni di persone che facevano parte dell’ebraismo polacco arrivino a vivere il giorno della liberazione assieme alle masse polacche… Credo che sorgerà  una simile Polonia e un simile mondo». Marek Edelman non volle mai lasciare la Polonia, malgrado l’infamia delle persecuzioni antisemite si protraesse nel regime sovietico e toccasse anche lui, finché venne il momento di ricominciare a lottare.

«I pochi salvati finora», aveva scritto Zygielbojm, e la parola torna nell’ultima riga del resoconto di Marek del 1945: «Noi, i salvati, lasciamo a voi / lettori / il compito di non far morire la loro memoria!». I salvati del Bund dall’insurrezione Edelman li nomina uno per uno, nel 1945: sulle dita di una sola mano. Non possiamo leggere la parola senza risentire l’eco del titolo di Primo Levi, a sua volta un calco biblico, sui sommersi e i salvati. Levi l’aveva evocato già  in Se questo è un uomo, e poi l’aveva estratto per farne il centro della sua riflessione inesauribile. Edelman ha dato sempre l’impressione, e non era uomo da simulare, di sapere che cosa fare, ogni giorno, del proprio tempo di superstite, quando era un oscuroe benemerito cardiologoa Lodz, quando prese il suo posto senza settarismi nella resistenza al regime e poi in Solidarnosc, quando rifiutò di lasciarsi trasformare in un monumento e si pronunciò senza reverenze contro la viltà  e l’ingiustizia, che si trattasse di ricordare l’inerzia per Auschwitz e nei confronti di Sarajevo assediata o di riconoscere il diritto dei palestinesi. Ma non era un uomo senza rimpianti e senza ripensamenti, al contrario.

Al tono epico del suo rapporto della rivolta del ghetto fa da contraltare in questo volume della preziosa Giuntina ( Il ghetto di Varsavia lotta) una prefazione di Wlodek Goldkorn che toglie di mezzo la maniera, e anzi ripaga la franchezza scontrosa di Marek con una franchezza propria. Goldkorn racconta sobriamente le contraddizioni, i rimpianti, gli scarti della memoria, perfino qualcosa che si chiamerebbe pentimento se questo nome non fosse da noi sovraccaricato e deformato dagli abusi, di un Edelman che ha allontanato da sé l’alone leggendario dell’eroismo per ripensare ogni volta a ciò che le circostanze rendono giusto o sbagliato, senza che le circostanze mutate diventino un pretesto all’indulgenza o all’arroganza. Edelman che ricorda di aver escluso dalla fuga tentata le prostitute che hanno nutrito i combattenti e curato i feriti, che rintraccia mezzo secolo dopo la cantante bandita come donna da tedeschi, che parla con comprensione dei poliziotti ebrei che allora furono complici dei nazisti. È, quest’ultimo, l’esempio più ambiguo e insieme netto. Le prime azioni temerarie dei giovani nel ghetto furono tutte rivolte contro capi e agenti ebrei che attuavano gli ordini tedeschi. Chi ha la colpa del collaborazionismo delle vittime? I nazisti tedeschi.

Ciò non toglie che si possa non collaborare. E che nella lotta bisogna colpire chi collabora. La comprensione arriverà  molto dopo. Allora dominava l’esasperazione per gli inermi schiacciati e per il ghetto che “non credeva”, non voleva credere che fosse possibile.

Questo libro restituisce dunque il rendiconto pressoché quotidiano della inaudita insurrezione del ’43, sconvolgente e sconcertante, quasi un’impresa di ragazzi della via Pal che sfidano invece della banda dell’orto botanico la più potente macchina da guerra mai montata.E le mette a confronto, nella testimonianza di Goldkorn, l’altro Edelman, quello dei ricordi intimi e delle intime dimenticanze della estrema vecchiezza, ma fedelissimo, più che all’ideale della propria gioventù, alla consegna di restare a guardia delle tombe dei suoi.

Lasciatemi aggiungere qualche parola su Goldkorn, che conoscete anche come l’inviato e il responsabile della cultura dell’ Espresso. Goldkorn, già  curatore per Sellerio di due libri con Edelman, Il guardiano e, appunto, C’era l’amore nel ghetto, è più che un cronista e uno studioso, e anche più che un amico devoto di Edelman. È a sua volta un militante di quel Bund che non esiste più se non in qualche incontro di vecchietti sparuti con una storia colossale alle spalle. Si può essere militanti di qualcosa che non esiste più – o di qualcosa che non esiste ancora: e forse solo di questo. Edelman, di cui le circostanze fecero prima un eroe precoce e poi una leggenda vivente e scorbutica, si fidava di Goldkorn, di cui le circostanze hanno fatto, dalla Polonia dei suoi avi bundisti e dell’antisemitismo rinnovato dal regime comunista contro il ’68, alla Germania degli studi, a Israele e all’Italia di cui divenne cittadino, uno Zelig delle cause giuste. Uno che sa mettersi nei panni altrui senza smettere i propri, e che ha imparato che alla persecuzione bisogna tagliare le unghie prima che diventino artigli. Che ha sentito cantare i canti del Bund di Scholem Anski, e raccontare com’era seducente Hendusia Himelfarb a diciassette anni, quando Marek le disse: «Vieni con noi», e lei rispose: «Non posso lasciare i bambini soli, piangeranno», e salì con loro sul vagone per Treblinka.


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