Frammenti d’autore per Sarajevo

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«La democrazia vive o muore a Sarajevo». I vent’anni trascorsi dalle manifestazioni per la pace su cui il 4, 5 e 6 aprile 1992 piovvero i primi proiettili dei cecchini serbi hanno privato la sentenza del poeta Abdulah Sidran di ogni sfumatura apodittica a favore della sua scomoda profeticità . Difficile infatti non rileggere alla luce di quanto sarebbe successo poi in Iraq o in Libia le parole dell’imam Spahic Hafiz Ismet che già  nell’agosto di quell’anno, all’indomani di una strage di donne musulmane in coda per l’acqua, constatava: «questa Europa cinica non starebbe ferma se per le strade di Sarajevo scorresse il petrolio invece che il sangue dei miei figli». 
Lungi dall’esaurirsi in quei «problemi politico-esotico-comunisti» in cui nel 1980 Danilo Kis intravvedeva ironicamente il fardello che impediva a lui e ai suoi corregionali di partecipare alla beata astoricità  dell’homo poeticus occidentale, la tragedia di Sarajevo è quella di una più che auspicabile prefigurazione del futuro che, di colpo, si rivela condannata dalla barbarie a sfumare nel passato. Un’esperienza non circoscritta a un preciso contesto storico-geografico – o preferibilmente alienabile al «selvaggio» est – ma destinata a ripetersi ogni qualvolta la coesistenza delle differenze venga criminalmente portata in rotta di collisione con i deliri ciclici delle grandeur etnico-territoriali. 
«Prima della guerra pensavo che Sarajevo con il suo multiculturalismo fosse una proiezione del futuro», scriveva Dzevad Karahasan, «che con l’avvento dell’Europa nazionalismi e sciovinismi sarebbero rimasti senza forze (…) che si sarebbe andati alla ricerca del melting pot e invece…». La cronaca dolorosa di questo «invece» che a distanza di vent’anni coinvolge l’Europa tutta più che mai è contenuta nell’intenso Sarajevo. Il libro dell’assedio, progetto editoriale italo-svizzero che per i tipi di adv publishing raccoglie accanto alle immagini del Diario fotografico di Danilo Krstanovic frammenti dalla produzione scritta – in versi e in prosa – di cinque scrittori, Tvrtko Kulenovic, Izet Sarajlic, Abdulah Sidran, Marko Vesovic e lo stesso Karahasan, che hanno documentato dall’interno la condizione dell’intellettuale assediato, spossessato dei punti di riferimento fino ad allora creduti immutabili, privato delle certezze più care. Prima tra tutte la consapevolezza di vivere all’interno di uno spazio unico, dove la piena uguaglianza tra i popoli sancita dalla carta costituzionale di Jaice si rispecchiava nell’intreccio interetnico e nella civile convivenza che già  nel Cinquecento, a nemmeno un secolo dalla sua fondazione, caratterizzava la città  di Sarajevo. 
Centro del mondo e microcosmo, in grado di concentrare in sé come in un prisma i raggi di luce dispersi, nella visione colta e intrisa di esoterismo di Karahasan Sarajevo si rivela fragile organismo ripiegato sulla propria interiorità , in virtù di un’introversione dettata in primo luogo dalla sua posizione geografica, dal suo fiducioso sprofondare nella valle del fiume Miljacka. Un modello topografico costruito idealmente sul concetto di centro che nella poesia dalle cadenze solenni di Abdulah Sidran assume connotazioni fatali, man mano che la regressione tribale va trasformando quella che era «una società  di cittadini in abitanti di grotte e camminamenti», come scrive Karl Schloegel in un saggio dedicato alla città . 
Per Sidran (sceneggiatore dei primi film di Emir Kusturica) l’introspettività  di Sarajevo si incarna visivamente nell’immagine del tabut, la bara musulmana dal coperchio aperto che diventa metafora di una città  esposta al tiro dell’artiglieria, eppure protetta paradossalmente dalle proprie rovine che le permettono di «sopportare in qualche modo tutto questo con autocompiacimento», come osservava nel suo caratteristico stile trasognato Karahasan. Un inferno «addomesticato» dalla consapevolezza della superiorità  intellettuale e morale degli aggrediti sugli aggressori – un tema questo che attraversa tutto Il libro dell’assedio, assumendo ora i toni dell’invettiva (come in Tvrtko Kulenovic che definisce quella di Bosnia una «guerra della barbarie contro la civiltà , di un posto sperduto e sfigato contro la città »), ora quelli dell’invocazione, come nella splendida poesia dello stesso Sidran La preghiera di Sarajevo. 
Se dunque le parole di Kis – che già  in Clessidra osservava come sia preferibile stare con i perseguitati e non con i persecutori, perché tra i primi «ci sono le persone migliori» – si rivelano a distanza di anni un prezioso viatico per Kulenovic, la certezza della propria superiorità  morale non salva tuttavia l’intellettuale assediato dalla tormentosa esigenza di «essere contemporaneamente a Sarajevo e altrove». Da qui l’invidia per l’uomo morto mentre era in fila per l’acqua, che è riuscito ad andarsene da Sarajevo pur senza abbandonarla e che Karahasan immortala in uno dei passaggi più dolenti del libro. Oppure lo sconforto di fronte all’esodo della comunità  ebraica, avvenuto proprio nel cinquecentesimo anniversario del suo arrivo in Bosnia e definito da Karahasan con la consueta sobrietà  come «la fine di qualcosa di troppo bello». Se il poeta Izet Sarajlic il crollo del progetto jugoslavo corrisponde a un fallimento personale al quale – a differenza del vecchio Tolstoj – non ci si può sottrarre fuggendo in una qualche remota Astapovo, per altri invece come il montenegrino Marko Vesovic l’esperienza dell’assedio si accompagna alla conquista della piena cittadinanza sarajevese, al definitivo radicamento in quell'”urbe” che negli anni Sessanta-Settanta era divenuta patria elettiva di studenti e intellettuali critici verso il regime. Nell’ottica formativa, quasi ermeneutica di Vesovic il «privilegio della vittima» già  enucleato da Kis non consiste dunque in un diritto per nascita, bensì nella dolorosa, progressiva scoperta di «quanto puoi / sopportare senza andare in pezzi» o, più ironicamente, in un monumento elevato a se stessi nell’atto di abbaiare contro il male infinito del mondo, un monumento che si ergerà  – promette l’autore – «finché puzzerà  la Miljacka». 
Collage in cui la forma del frammento assume inevitabilmente la durezza acuminata della scheggia, Il libro dell’assedio non di rado lascia decantare lo strazio per sé e gli altri in considerazioni filosofiche, amari aforismi o riflessioni più o meno imbarazzate sui moti spontanei dell’animo. Se la guerra è «quando / ti dispiace che dio non esista e di non poterlo chiamare a / rispondere di questo macello» (Vesovic), in un simile stillicidio gratuito del senso all’intellettuale non resta che farsi aruspice e tentare di interpretare i segni del caso. Così, di fronte ai volumi della sua biblioteca trapassati da una scheggia di granata, Karahasan commenterà : «Per Nadezda Mandel’stam tutto a posto (…) ma per Gottfried Keller ancor oggi non mi è chiaro che cosa abbia fatto di male ai generali dell’esercito popolare jugoslavo». 
Altrove invece il «privilegio della vittima» si risolve in un rovesciamento di prospettiva solo all’apparenza paradossale. Come, ad esempio, nel messaggio inviato da Abdulah Sidran dal cuore dell’assedio all’Europa, che a tutt’oggi non ha perduto il suo caustico significato: «Tenetevi forte, resistete, noi siamo con voi!».


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