Fakhra, il simbolo delle donne senza volto

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Al suo arrivo a Karachi, a fine marzo, il feretro di Fakhra Younas era avvolto nella bandiera pachistana e in quella italiana. La folla ha pianto e ha protestato. «Mi dispiace che sia tornata da simbolo, da morta», dice al CorriereClarice Felli, dell’associazione di volontariato «smileagain» che per anni l’ha aiutata in Italia. «Speravo che prima o poi tornasse in Pakistan viva».
Fakhra, simbolo delle donne attaccate con l’acido. Dodici anni fa denunciò l’ex marito (che si è sempre detto innocente) per averla sfigurata. Danzatrice del quartiere a luci rosse di Karachi — un eufemismo per prostituta — aveva sposato un cliente benestante, ma il matrimonio era fallito, lei lo accusava di abusi. Nel 2000, fu assalita nel sonno, un uomo la tenne ferma, un altro le versò l’acido sul volto e sul petto. Arrivata a Roma con il figlio, ha ottenuto l’asilo politico e si è sottoposta al bisturi 38 volte, a spese della Sanità  pubblica, sottolinea Felli. Ha scritto un libro Il volto cancellato (con la giornalista Elena Doni). Era forte, determinata, dicevano. Ma quando il 17 marzo, a 33 anni, Fakhra si è buttata dal sesto piano dell’appartamento di Roma dove viveva grazie al Comune, il figlio quindicenne Noman non era stupito. Sua madre aveva già  tentato di uccidersi. Voleva tornare nel suo Paese ma non poteva: avrebbe perso l’asilo politico, e gli amici temevano che lì la sua vita fosse in pericolo. In Pakistan Fakhra non ha mai ottenuto giustizia. 
Il suo suicidio ricorda che donne come lei combattono battaglie che continuano anche molto tempo dopo che i riflettori si spengono. E che non sempre terminano con un lieto fine.
Il documentario Saving Face (salvare la faccia), co-diretto dalla regista pachistana Sharmeen Obaid-Chinoy e premiato con l’Oscar a febbraio, ha portato l’attenzione sugli attacchi con l’acido, usato spesso nelle violenze domestiche. Ma «al di là  del glamour del tappeto rosso e l’eccitazione in tv, su Facebook e Twitter», il quotidiano pachistano Dawn ha notato che le coraggiose protagoniste del film, Rukhsana e Zakia, attaccate con l’acido dai loro mariti, hanno evitato di farsi vedere, temendo per la propria sicurezza. Il marito della prima, con il quale si è riconciliata, non era al corrente che fosse apparsa nel cortometraggio — secondo il giornale — e i fratelli della seconda non erano d’accordo.
Puntare i riflettori su singole storie non è abbastanza. «È fondamentale rendere reato questo tipo di violenza», dice Felli. «Anche in Cambogia, in Nigeria…». In Bangladesh c’è una legge da una decina d’anni (e gli attacchi si sono ridotti da 500 nel 2002 a 100 nel 2010, secondo il New York Times). In Pakistan una legge dall’anno scorso punisce con minimo 14 anni di carcere e una multa di un milione di rupie (8.500 euro circa) chi commette gli attacchi con l’acido (200 denunce l’anno scorso, ma gli esperti dicono che spesso le vittime tacciono). C’è chi chiede di controllare pure la vendita dell’acido, accessibile perché usato nell’industria tessile e delle pelli, spiega Mohammed Jawad, chirurgo plastico che ha curato Zakia e Rukhsana. E sottolinea che, passate le leggi, bisogna anche assicurare che davvero vengano applicate. «A volte chi attacca le donne è potente nella società ».
Gli attacchi con l’acido non sono l’unica violenza sulle donne «ribelli». Un altro simbolo è la diciottenne afghana Bibi Aisha, mutilata dal marito con l’aiuto della famiglia perché, dopo anni di abusi, era fuggita. Apparve sulla copertina di Time nel 2010. Atterrata in America per essere sottoposta a chirurgia plastica per ricostruirle il naso e le orecchie, un anno dopo soffriva ancora di crisi e di flashback traumatici, anche se oggi sta meglio. Ricostruirsi una vita è più difficile di quanto non sembri dai titoli di giornale. Il suocero, l’unico responsabile arrestato, è stato rilasciato a luglio.
Nel caso di Fakhra, il marito Bilal Khar viene da una famiglia di proprietari terrieri: è figlio di un ex governatore del Punjab e cugino dell’attuale ministra degli Esteri Hina Rabbani Khar. Nove anni fa, quando i quattro testimoni contro di lui ritrattarono, e fu assolto, ci fu chi sottolineò che la giustizia non è uguale per tutti.


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