by Editore | 17 Aprile 2012 6:40
«Sembra la proboscide di un elefante», ha detto la presidente argentina Cristina Kirchner, indicando il grafico delle riserve petrolifere di Ypf, la maggior società di idrocarburi del paese, calate inesorabilmente verso il basso negli ultimi 3 anni e ragione di un deficit energetico che ha abituato gli argentini a far la fila al benzinaio, a pagare un surplus per l’importazione nella bolletta del gas e ad andare a scuola, al lavoro e in ospedale senza sapere se ci sarà il riscaldamento, perché in inverno il metano arriva a singhiozzo. Dopo almeno un mese di indiscrezioni circolate e poi smentite, minacce e promesse, una conferenza stampa a reti unificate ha interrotto ieri le telenovela, i servizi di cronaca nera e le speranze degli azionisti spagnoli di Repsol: la società sarà nazionalizzata.
Nata circa un secolo fa come prima società petrolifera pubblica della storia, Ypf torna dunque allo Stato, che ne prende il controllo, scaccia gli spagnoli e mantiene la famiglia Eskenazi, un gruppo di imprenditori ebrei argentini, che furono inseriti a forza nel capitale della società per difendere l’argentinità . Salvi anche i soldi dei piccoli risparmiatori, infatti Cristina chiarisce, che ad essere colpite saranno solo le azioni di Repsol, che in totale sono, o meglio erano, il 56%. Agli spagnoli rimarrà solo un 5%.
Che l’aria fosse pesante, lo si capiva già dai cori da stadio cantati dall’entourage di Cristina, ministri compresi, mentre entrava nel salone gremito. Poi, la portavoce presidenziale ha iniziato a leggere i 19 articoli del ddl di nazionalizzazione, dicendo frasi come «recuperare la sovranità energetica», «espropriare il 51% delle azioni» e «rimuovere la totalità dei rappresentanti di Repsol dal consiglio d’amministrazione», e nel giro di 15 minuti le azioni stavano già perdendo il 17% a Wall Street.
Dietro a una decisione dura, in barba ai trattati internazionali e alle continue pressioni di Madrid, c’è il caso paradossale di quello che fino a poco tempo fa era un esportatore netto di combustibile, e che oggi invece è obbligato a spendere 9 miliardi di dollari l’anno per comprare il gas dalla Bolivia. Una situazione che, alla fine, il governo ha risolto pronunciando l’incantesimo più socialista che compaia nel libro magico del peronismo di sinistra: quello della nazionalizzazione.
Una legge in parlamento non è certo il discorso di Castro a L’Avana, che caccia la Cocacola da Cuba, ma intanto, da oggi il ministero della Pianificazione controllerà l’azienda che fino a ieri era spagnola e i dirigenti di Repsol sono già stati materialmente obbligati a lasciare l’ufficio, mentre prende vita un iter legislativo dall’esito scontato, visto che il kirchnerismo possiede la maggioranza in entrambe le camere e approverà sicuramente la norma che propone. Questa certezza traspare dalle parole della stessa Cristina, che con in mano una ampolla contenente il primo campione di petrolio estratto da un giacimento in Patagonia ha detto: «Siate pur sicuri che quel 51% – di Ypf – non andrà a nessun gruppo economico argentino o straniero: andrà in mano allo Stato come deve essere».
Non è bastata la voce grossa della Spagna, con l’intervento del premier Mariano Rajoy e del re Juan Carlos. Né il soccorso dell’Ue che arriverà a Buenos Aires giovedì prossimo per difendere gli interessi delle sue aziende, quando ormai il ddl di nazionalizzazione sarà in mano al senato. E non è bastato neanche l’ultimo disperato viaggio in Argentina del ceo di Repsol, Antonio Brufau, che si è affrettato a dichiarare che l’impresa voleva battere la via del dialogo con l’esecutivo, ma è stato costretto ad assistere alla materializzazione del suo peggior incubo.
Nell’ultimo mese, le province petrolifere argentine, tutte politicamente alleate di Cristina, avevano revocato a Ypf, e di rimando quindi a Repsol, 16 contratti di estrazione. All’inizio si era trattato di poca roba, poi le minacce erano diventate più consistenti: il governo, voleva che Respol investisse di più, che smettesse di portare in Spagna i guadagni realizzati in Argentina e che aumentasse le riserve di greggio.
La prima reazione della Spagna è cauta: parla Dolores de Cospedal, testa di serie del Partido Popular di Mariano Rajoy, al governo nella provincia di Castilla La Mancha: «Sono certa che l’esecutivo darà una giusta risposta a questa situazione», dice, facendo finta di non accorgersi che mentre informava di aver proposto una legge che se ne infischiava dei trattati bilaterali con Madrid, in nome degli «interessi del popolo argentino», Cristina si è anche presa gioco del re Juan Carlos, che aveva chiesto la tutela dei capitali di Repsol in Argentina e poi si era fatto fotografare a una battuta di caccia in Africa, davanti a un bellissimo elefante morto, con la proboscide abbassata come le riserve di Ypf.
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