Deller, l’anticonformista in galleria

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Mentre nel 1993 la scena londinese veniva assaltata dagli indomiti Y’Bas (Young British Artist) nello stesso anno Jeremy Deller (East Dulwich, 1966) debuttava nella sua prima mostra Open Bedroom, una sorta di total site-specific realizzata nelle mura di casa dei genitori (dove ancora viveva), approfittando della loro assenza vacanziera. Un informale incipit che connota già  il suo agire anti-conformistico. 
Da non perdere è ora la sua sublime mostra Joy in People alla Hayward Gallery di Londra (fino al 13 maggio) curata da Ralph Rugoff. Deller, già  insignito del prestigioso Turner Prize nel 2004, rappresenta un esempio a se stante, una attitudine anarchica nel modo di concepire, decostruire e trasmutare la sua visione della storia, delle culture, del privato e del pubblico. Non è un caso che l’unico aggettivo che gli si addica è «anti-convenzionale». E la falsa categoria di engagé in cui, banalmente, lo si colloca per inadeguatezza critica, irrita l’artista.
Nel bellissimo testo in catalogo che Stuart Hall gli dedica, lo storico coglie effettivamente lo snodo del lavoro di Jeremy Deller: l’inassegnabilità  del suo immaginario politico. Non apologetico tantomeno ideologico. E, al tempo stesso, sorvolata l’ortodossia politica, la socialità  diventa il perno della ricerca variegata di questo artista che commuta nell’indagine delle culture popolari i conflitti, i movimenti di massa, le comunità , le proteste nazionali e internazionali. L’identità  e la differenza contestualizzati nei diversi campi culturali. L’ironia e autoironia filigranata nella lettura dei lavori. 
Il background di Deller si evince subito, aprendo la porta di accesso della mostra, ricoperta interamente da un gigantesco poster fucsia fosforescente Bless This Acid House. Ci si catapulta poi nella sua stanza adolescenziale, middle class nella suburbia londinese (ricostruita certosinamente) e da cui si intuisce la costruzione del soggetto: posters dei gruppi pop e rock inglesi, collezioni, disegni, stickers, t-shirts appese, volantini di manifestazioni e miti antitetici all’Inghilterra thatcheriana che lui ha sempre cercato di contraltare, soprattutto superando quella malsana idea liberista dell’individualismo sfrenato e affermando di contro la prassi comunitaria. 
Tutto il suo lavoro nasce dalla ricerca e dall’interazione con comunità  differenti tra loro: musicali, operaie, di genere. The History of the World, 1997, è il wall painting che rappresenta un diagramma le cui connessioni sociali, politiche e musicali fondono la house music e la brass bands e tendono a ricomporre la storia britannica dall’era industriale a quella post-industriale. Deller stesso sostiene che i due eventi di massa che hanno connotato l’Inghilterra degli anni Ottanta sono stati i rave e il grande sciopero dei minatori dell’83. In The Battle of Orgreave (2001) Jeremy Deller si è ispirato ai tumultuosi avvenimenti inglesi accorsi nel Sud del Yorkshire nel 1984 quando il National Union of Mineworkers incrociò le braccia e la Thatcher inviò ottomila poliziotti in assetto antisommossa, a cavallo e armati di manganelli, a sbaragliare un picchetto, provocando settecento feriti. Il re-enactment è stato filmato da Mike Figgis per Artangel Media e Channel 4, oltre alla realizzazione di un ciclo docu-fotografico, accompagnato dal libro The English Civil War Part II.
Deller tenta di verificare l’identità  britannica intesa come una sorta di imperialismo culturale, contrastandone la sua dimensione monolitica e univoca. L’orizzonte musicale, così vivo e pulsante nella sua esperienza di fan, lo spinge continuamente ispirarsi a miti pop (Brian Epstein, Manics Street Preachers, Steel Harmony) alla ricerca del senso contestativo che solo la musica contiene in sé.
Our Hobby is Depeche Mode, 2006 è un film realizzato insieme a Nick Abrahams durante il tour dei Depeche Mode tra Iran ed est europeo in cui i Depeche Mode rappresentarono, per le giovani generazioni, il simbolo della resistenza ai vari totalitarismi. Il super8 evince le scene di delirio collettivo durante i concerti e la condizione fandom nei vari aspetti feticistici. Nondimeno è evidente il focus sull’assoggettamento culturale che l’Inghilterra ha supportato agendo su interi strati generazionali europei e asiatici. L’allestimento straordinario della mostra avvince lo spettatore nella quasi inaspettata rappresentazione delle opere: posters, lettere, disegni, foto, badge, vinili, banners addirittura un coloratissimo bar – Valerie’s Snack Bar – cadenzati nel suo pop humor e in un senso quasi di malinconia, umore che lo frastorna. A essa Deller dedica il poetico wall painting nero su nero I love Melancholy ,1993 (da un ricorrente ciclo in progress di suoi lavori I love…)
Nell’antagonismo in cui si schierò l’Inghilterra sulla partecipazione delle forze militari britanniche nell’attacco all’Iraq alla fine del 2007, Deller si pone nel dibattito politico con un progetto free-form, It is What It is: Conversation About Iraq del 2009, programmato in un forum di discussione con esperti di guerra tra cui il riservista Jonathan Harvey e il giornalista iracheno Esam Pasha. A fare da centro simbolico è l’installazione di una macchina distrutta nell’attentato avvenuto a Bagdad il 5 marzo 2007 nella centralissima via di Al-Mutanabbi, dove risiedeva una storica libreria. Nell’attentato persero la vita trentacinque persone. La carcassa, molto simile alle sculture pressate di un Chamberlain, venne fatta trasportare in venticinque città  americane; poi, regalata all’Imperial War Museums di Londra. 
Deller smaterializza l’opera come nel 2009 con What Is The City But The People? progetto pubblico commissionatogli dalla metropolitana di Londra in cui fece leggere e diffondere nella Central line, per un mese intero, frasi di Ghandi, Freud, Sartre, Marx dagli autisti della tube…
Stuart Hall, in catalogo, si sofferma molto sull’archivio in progress di Deller e Allan Kane «Folk Art» e sul superamento del termine stesso di «folk». Deller infatti contesta lo stereotipo e ne riscrive il suo significato attraverso eventi, happening, film, oggetti. Procession è l’incredibile progetto che realizza nel 2009 per Manchester International Festival, mettendo in scena una processione di varie comunità  locali che sfilano con brillanti e significativi stendardi nel centro della città  inglese. 
La sezione dei suoi progetti pubblici rifiutati viene documentata con la sua solita autoironia: schizzi, progetti, lettere di rifiuto. E c’è anche Karl Marx at Christmas, Memory Bucket, What Would Neil Young Do? E anche il film-ritratto del wrestler So Many Ways To Hurt You (The Life and Times and Adrian Street). L’esposizione londinese sarà  poi al Wiels di Brussell, all’Institute of Contemporary Art di Filadelfia e al Contemporary Art Museum di St. Louis.


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