by Editore | 6 Aprile 2012 6:33
Dove sono Armando, Ettore, Oscar, Salvatore e Roberto, il padrone del Cuoco di Bordo, l’immobiliarista con la bandana, il maestro di kung fu, l’edicolante di periferia, il medico e luminare che aveva anche curato l’Inter? Uno è stato ammazzato all’uscita dal lavoro, mentre rincasava con il fratello. Uno sotto casa, dove invitava le tante bionde dell’est. Uno l’aveva detto alla moglie uscendo di galera: «Mi faranno fuori». Uno apriva il primo pacco dei giornali, all’alba. E l’ultimo, che si chiama Klinger, mentre saliva in macchina, al mattino, in una zona bella di Milano, e nessuno ha visto.
Dove sono Tilde, Khira detta Paulette, Laura, Lalla, Adriana? La maestra di piano rimasta da sola nel grande palazzo da ristrutturare, la più anziana “battona” della piazza, la casalinga con l’amante fisso, la senzatetto sorridente che sembrava Brigitte Bardot, la ricca antiquaria di corso Magenta sono state uccise anche loro. Una è stata trovata con la testa spaccata in casa, una nel letto sfatto, una in un fosso di periferia, una in un giardino, l’altra aveva l’allarme sofisticato, ma non ha funzionato.
Sfogliare Milano cold cases, di Massimo Pisa (Baldini & Castoldi, 16 euro) rimanda con il pensiero ai morti senza pace dell’Antologia di Spoon River. Quelli, diceva Edgar Lee Masters, dormono sulla collina, questi nei fascicoli di questure e caserme. Non c’è poesia, né ci può essere, anzi il linguaggio usato da Pisa è totalmente cronistico. I fatti sono sciorinati per quelli che sono: le prime piste, le false intuizioni, l’idea che non funziona, l’indizio che si rivela sbagliato. Tutto quello che contribuisce a che “giustizia non sia fatta”. Il groviglio che non si dipana. E dire che Milano è una città dove tradizionalmente esistono forti squadre Omicidi. Ma non sembra impossibile farla franca, o crearsi alibi assurdi, che però in qualche modo non vengono disintegrati. Nemmeno dall’ultima generazione di “prove scientifiche”. Che continua invece a produrre effetti catastrofici, come dimostra a Roma la tragedia di Simonetta Cesaroni, via Poma: sul caso è emerso nei giorni scorsi un delirio “scientifico” tale da lasciare attoniti. E anche nei diciotto “cold cases” del libro (che nascono sulle pagine milanesi di Repubblica) non è che la scienza abbia aiutato più di tanto.
Un fascicolo dopo l’altro, un nome dopo l’altro, emergono tanti dettagli, ci sono le “soffiate”, l’autore disegna una mappa, ma è una mappa di vicoli ciechi, quelli dove vanno a cacciarsi i detective. I quali, però, non mollano: emerge da queste pagine il mestiere e la passione di chi, senza clamore, anzi nel totale riserbo, ripercorre decine di volte gli stessi indizi. Perché gli assassini impuniti non fanno dormire. Sicuramente non fanno dormire i familiari addolorati, ma anche qualche investigatore, o qualche cronista, che si svegliano all’improvviso e pensano: «E se fosse così che è andata?». Nei gialli talvolta una soluzione intelligente arriva e nei telefilm pure (ma meno intelligente, di solito). Nella vita, come insegnano quelli che “dormono sulla collina”, è tutto molto più complicato.
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