Dal Cile al Sudafrica, le riconciliazioni che danno la rotta alla nuova Birmania
ROMA — È poco probabile che Aung San Suu Kyi abbia visto Invictus, il film di Clint Eastwood dedicato a Nelson Mandela e alla vittoria del Sudafrica nella Coppa del Mondo di rugby del 1995, primo vero atto di pacificazione del Paese appena uscito dall’apartheid.
Ma la «Lady delle ghirlande» sembra conoscere da sempre i versi di William Ernest Henley, scritti su quel foglietto che Madiba consegnò a Franà§ois Pienaar, il leader degli Springbocks, prima della finale: «Io sono il padrone del mio destino/Io sono il capitano della mia anima».
E adesso che la Signora ha visto premiata dalle urne la sua lotta tranquilla e indomita per una nuova Birmania, la transizione sudafricana torna in mente, se non come modello, come prova che ogni cammino vincente verso la democrazia comincia e procede soprattutto dall’interno di un Paese. E tornano in mente altri passaggi difficili verso la libertà e la riconciliazione nazionale, giunti al traguardo senza bagni di sangue. Nessuno privo di contraddizioni, buchi neri, risentimenti profondi e appena dissimulati. Ma tutti lì a dirci che evoluzioni pacifiche dalla dittatura alla democrazia sono possibili. Il Sudafrica e prima ancora la Spagna, la Polonia, il Cile sono precedenti storici che danno ragione a Aung San Suu Kyi.
Ci volle la morte fisica di Francisco Franco, dopo un coma di mesi che divenne simbolo e metafora di un regime in decomposizione, per innescare nel novembre 1975 il processo di apertura democratica della Spagna. Per portarlo a termine, occorsero un grande Re e un grande primo ministro, Juan Carlos e Adolfo Suà¡rez, capaci di tagliare i cordoni ombelicali che li legavano al regime, il primo educato per regnare dallo stesso dittatore, il secondo ex capo del Movimiento franchista. Non era scontato, non fu semplice, in un Paese dove la Guerra Civile aveva lasciato ferite mai rimarginate. Ma a parte il terrorismo basco dell’Eta, capitolo separato della travagliata storia spagnola, i soli colpi furono quelli sparati in aria alle Cortes dal colonnello Tejero, durante il fallito golpe del 1981.
Otto anni dopo, quando ancora nessuno pensava che il Muro di Berlino avesse i mesi contati, toccò al popolo polacco, parole di Adam Michnik, «ritrovare la voce e mostrare al mondo il suo lato migliore». Dopo mesi di scioperi nei cantieri navali di Danzica, il generale Jaruzelski e i capi comunisti dovettero accettare il negoziato della Tavola Rotonda con Lech Walesa e gli altri leader di Solidarnosc. Il terremoto rimase politico, nel giugno 1989 l’opposizione conquistò tutti i seggi in ballottaggio per il Sejm. In agosto Tadeusz Mazowiecki, giornalista anti-comunista e devoto cattolico, fu nominato premier. Certo, avvenne tutto sull’onda della perestrojka di Gorbaciov, un grande ruolo ebbero nella svolta Giovanni Paolo II e la Chiesa cattolica, ma furono soprattutto i polacchi a fare il miracolo. Più di vent’anni dopo Pawel Lisicki, direttore conservatore di Rzeczpospolita, accusa i suoi connazionali di «amnesia e indebolimento del senso civico». Ma ricorda con orgoglio il giorno in cui «i polacchi dimostrarono di poter scegliere da soli e scelsero la libertà ».
Proprio nei mesi in cui Walesa iniziava il suo dialogo a muso duro col regime di Varsavia, un’altra transizione democratica prendeva il volo nell’emisfero meridionale del pianeta. Il 5 ottobre 1988 più di 7 milioni di cileni votarono nel plebiscito, che avrebbe dovuto garantire altri 8 anni di potere ad Augusto Pinochet, l’uomo del golpe del 1973, uno dei più spietati dittatori dell’America Latina. Quasi il 55% disse di no, aprendo la strada a libere elezioni presidenziali. Pinochet rimase capo delle forze armate, ma lentamente il Paese uscì dalle sue tenebre. «Naturalmente ci sono ancora divisioni — ha detto un anno fa al Corriere l’attuale presidente cileno, Sebastià¡n Pià±era —, ma siamo stati in grado di tornare alla democrazia in modo unitario, saggio e pacifico, il che non è poco. Le transizioni dai regimi militari a sistemi democratici sono quasi sempre segnate da violenze, sangue e caos. Questo non fu il nostro caso. Ci fu un accordo tra le forze democratiche che avevano vinto il referendum e il vecchio regime, cambiammo la Costituzione, tutto avvenne nella stabilità . La transizione del Cile è stata un successo». Anche Barack Obama ha indicato il caso cileno a esempio, definendo «le lezioni del Sud America una guida per quei popoli del mondo, che iniziano il loro viaggio verso la democrazia».
Ma guida non significa ricetta universale per transizioni democratiche e pacifiche di successo. E tornando dove eravamo partiti, la fine dell’apartheid in Sudafrica fu un momento trascendentale, il risultato di una magia politica e umana che ebbe del miracoloso: un singolo passo falso avrebbe scatenato la guerra razziale. Non fu così. Il regime afrikaner negoziò la propria uscita di scena, Mandela incoraggiò la riconciliazione e la nascita della Rainbow Nation. Ma il costo di lunghi anni di conflitto violento sarà ancora pagato per molto tempo, non ultimo in termini di illegalità e sconquasso sociale. E anche questa è una lezione di cui Aung San Suu Kyi potrà far tesoro.
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