Da Poggioreale al Camp Nou
Sorride, à“scar. Una risata innocente e inconfondibile, anche se i periti hanno tardato ad accorgesene. Seicentoventisei giorni di carcere (quasi 20 mesi), torturato e maltrattato dai suoi compagni di cella, vittima di un clamoroso errore giudiziario e della sua ingenuità . Questo lavamacchine di 46 anni, piccolo e dall’aria indifesa negli occhi, è riuscito a non perdere mai la speranza: «Sapevo che prima o poi avrebbero capito che io non avevo fatto nulla».
Tutto inizia il 5 luglio 2010, quando all’autolavaggio dove lavorava à“scar Sà¡nchez Fernà¡ndez a Montgat, un paese della costa, pochi chilometri a nord di Barcelona, si presenta la Guardia Civil. Dopo l’identificazione, lo arrestano e dopo un paio di giorni lo trasferiscono a Madrid, dove finalmente gli viene spiegato, per sommi capi, di essere ricercato in Italia nell’ambito di una inchiesta internazionale sul narcotraffico. Nonostante le proteste di à“scar, che neppure parlava italiano, dopo un mese viene trasferito a Roma. «Appena arrivato all’aeroporto – racconta – mi diedero in mano un volume enorme con la mia causa, tutto in italiano e senza nessuna traduzione. Il mio nome appariva da tutte le parti. E io non capivo perché». A Rebibbia, à“scar grazie all’aiuto di un compagno di cella e con la traduzione di un altro compagno venezuelano, riesce a raccapezzarsi: due diverse indagini di Carabinieri e Guardia di Finanza lo identificano come un importante narcotrafficante, nodo di una rete che inviava cocaina dal Sudamerica all’Italia attraverso la Spagna.
à“scar è sicuro che si tratti di un equivoco e che presto si sarebbe chiarito tutto. L’intero processo si basa su una perizia vocale firmata da Roberto Porto, lo stesso perito coinvolto nelle controverse intercettazioni telefoniche del processo calciopoli. Secondo Porto, la voce registrata nelle intercettazioni telefoniche del trafficante era quella di à“scar con un 90% di probabilità . Secondo la polizia spagnola, invece, l’uruguayano Marcelo Maràn Iannandrea aveva rubato l’identità di à“scar e con il suo nome e la sua carta d’identità si era recato in diverse occasioni in Italia, commettendo i crimini di cui era accusato l’ignaro catalano. La voce, così come l’accento del vero narcotrafficante, che usa espressioni tipicamente sudamericane, è in realtà marcatamente diversa da quella di à“scar.
Intanto à“scar veniva trasferito a Poggioreale, dato che era Napoli la sede del processo. E fu lì che ebbe inizio un inferno. «Mi misero in una cella con dieci persone», racconta. «All’inizio, tutto bene, perché ero la novità . Poi cominciarono a dare la colpa a me ogni volta che c’era una lite in cella. Mi picchiavano, mi facevano violenza con un bastone, mi chiudevano la testa dentro un armadio. Mi costringevano a far loro il caffè, a pulire. Non potevo svegliarli se dovevo andare in bagno. E guai a parlare con le guardie: una volta, uno di loro mi chiese notizie del Barà§a, e quando se ne accorsero i miei compagni di cella mi minacciarono pensando che li avrei denunciati. Mi hanno persino inciso una N di Napoli sul braccio e ci hanno versato sopra del sale per punirmi di non tifare la loro squadra», ricorda con le braccia conserte in posizione di difesa. «Avevamo solo due ore d’aria al giorno e potevamo fare la doccia solo il martedì e il mercoledì. A Poggioreale sono stato davvero male: almeno a Roma c’erano delle attività , c’era una biblioteca più fornita. A Rebibbia mi avevano anche fatto fare l’arbitro delle partite di calcio, anche se in verità a me piace di più il basket».
Il processo di à“scar intanto procede, e nel maggio 2011, dieci mesi dopo essere stato arrestato, viene condannato in primo grado a 14 anni per narcotraffico. Probabilmente sarebbe rimasto in carcere ancora per molti anni se non fossero intervenuti due giornalisti di uno dei due più importanti giornali catalani: El Perià³dico de Catalunya.
Pochi giorni prima della condanna del lavamacchine, arrivò in redazione, attraverso una stagista, una delle disperate lettere che à“scar inviava a tutti gli amici e conoscenti cercando di far conoscere il suo caso. Il Perià³dico prese subito sul serio la storia, e iniziò un’indagine parallela. L’indagine si concentrò sul lavamacchine e sul suo circolo. L’enormità dell’accusa non quadrava con una persona il cui unico contatto con la droga era il consumo sporadico di qualche canna e che non era mai uscito dal suo paesino se non per fare il militare. Inoltre godeva della fama di essere un lavoratore scrupoloso e tutti concordavano che fosse una persona molto semplice. Grazie al lavoro del Perià³dico, a Montgat si formò una piattaforma d’appoggio che raccolse soldi e adesioni per pagare il processo. I giornalisti arrivarono anche a raccogliere la testimonianza di un altro degli imputati del caso di narcotraffico che dichiarò per iscritto e al giudice che à“scar non c’entrava nulla con la persona che aveva commesso quei crimini.
Grazie alla denuncia del giornale, si rimise in moto l’indagine della polizia spagnola che trovò una testimone che aveva condiviso una delle stanze d’albergo con il vero criminale e che confermò che non si trattava di à“scar ma di Marcelo Maràn. All’epoca di questa indagine, Maràn era già in carcere nelle Canarie per un altro processo, ma è stato scarcerato lo scorso febbraio.
Il giornale rese noto anche come era stato possibile che Maràn fosse entrato in possesso della carta d’identità di à“scar: lo stesso à“scar, ingannato da una ragazza rumena che pensava essere sua amica, l’aveva ceduta in cambio di un piccolo quantitativo di denaro per aiutare un sinpapeles, secondo quanto gli aveva detto la ragazza.
«Mentre ero in carcere, cercavo di capire come potevo essere finito in quell’incubo», racconta oggi à“scar in un bar vicino al mare a Montgat. «Mi ricordai che una volta avevo perso la mia carta d’identità . Poi pensai che mi fosse stata rubata dalla ragazza che aiutava mia mamma. Solo alla fine capii il mio terribile errore».
Intanto la giustizia faceva il suo corso. Già a luglio del 2011, la procura generale spagnola trasmette con procedura d’urgenza al Tribunale di Napoli le prove raccolte dalla polizia spagnola e dal Perià³dico. Ma in quella e in una seconda occasione a dicembre, quando ormai anche il pm era convinto dell’innocenza di à“scar, il tribunale della libertà si rifiuta di scarcerare à“scar in attesa del giudizio di secondo grado. Secondo il giudice, non erano state presentate prove che smentissero la perizia iniziale. Alla fine, di perizie se ne aggiunsero ben cinque: una dell’università Pompeu Fabra, una della difesa, una incaricata dalla procura antimafia a Davide Zavattaro, comandante del Racis di Roma, e le due risolutive, una linguistica e una fonetica. Tutte concordi nell’escludere che à“scar, che veniva chiamato proprio Marcelo in molte delle intercettazioni, fosse Marcelo («Oscar, alias Marcelo», dicevano gli atti).
à“scar intanto dimostra una forza inaspettata: «Calma e pazienza, mi dicevo in questi mesi. Ero certo che ce l’avrei fatta – racconta – Quando finalmente mi venne a visitare il console spagnolo, a settembre, almeno ottenni di poter cambiare di cella».
A settembre scorso arriva l’unica buona notizia per à“scar nel 2011: per un vizio di forma, il tribunale non ha potuto aggiungere altri 15 anni alla condanna iniziale. Ma per decretare il proscioglimento con formula piena per non aver commesso il fatto il giudice ha atteso fino al 21 marzo 2012, giorno dell’appello. «Erano due notti che non riuscivo a dormire. Ero per metà felice e per metà triste: avevo paura», racconta commosso à“scar. Persino l’ultimo giorno non lo hanno lasciato in pace: «Mi hanno preso tutto, persino lo spazzolino. Tanto dicevano che lo potevo ricomprare in Spagna».
Ora à“scar è libero. È diventato l’eroe del paese. E sabato il Barà§a lo ha invitato sulla tribuna d’onore per la partita con l’Athletic di Bilbao. «È stato il giorno più bello dal mio ritorno – dice ancora à“scar – Dopo la partita, con mio cugino siamo andati in una discoteca. Mi riconoscevano tutti, non riuscivo neppure ad andare al bagno. ‘Tu sei quello della tele’, e tutti a parlare con me. Sono molte emozioni, ma io non vedo l’ora di tornare a lavorare e a fare la mia vita di prima».
Dell’Italia non ha un bel ricordo. «Dovete fare qualcosa per le vostre carceri. Quello che ho visto pensavo succedesse solo in paesi remoti, non qui accanto – dice – certo, non ho incontrato belle persone. Mi insultavano, mi chiamavano mongoloide, immondizia. Ma sono certo che anche in Italia ci saranno brave persone, come dappertutto. In fondo tutte le esperienze portano del bene e del male. E ho imparato a dire anche di no».
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