Da Canton a Shanghai. La grande frenata del dragone cinese
Chi salverà i nostri salvatori? Abituati da qualche anno a cullarci nella confortante illusione che la Cina comunista faccia da argine agli sconquassi finanziari del capitalismo internazionale, scopriamo a poco a poco che quel bastione si sta sgretolando. Non crolla, ma mostra crepe profonde. La crescita produttiva rallenta. La bolla edilizia si è gonfiata a dismisura e rischia di scoppiare. Il calo delle esportazioni non è compensato da un parallelo sviluppo del mercato interno. Molte aziende chiudono, la disoccupazione sale, e raggiungono livelli mai toccati prima le tensioni sociali nelle aree che avevano trainato la formidabile espansione dello scorso decennio, da Canton a Shanghai.
Come se non bastasse, tutto ciò avviene mentre ai vertici, dietro le quinte di una rappresentazione rituale di unità e armonia, infuria una furibonda lotta tra fazioni. Il cui episodio più drammatico è stata l’espulsione dal Comitato centrale di Bo Xilai, astro nascente della politica nazionale. Uno che non potendo puntare alla carica di leader supremo, aspirava a diventare comunque l’eminenza grigia di Xi Jinping, il giorno in cui in ottobre il congresso comunista lo eleggerà al posto dell’attuale capo di Stato e del partito Hu Jintao. La fine politica di Bo avviene sullo sfondo di vicende inquietanti: dal tentativo di fuga all’estero del suo ex-braccio destro Wang Lijun, all’arresto della moglie Gu Kailai coinvolta nell’omicidio di un uomo d’affari inglese a Chongqing.
L’Occidente ha un solo motivo per consolarsi. Pechino per ora non ha alcuna intenzione di ritirare le ingenti somme investite nei titoli pubblici americani e di vari Paesi europei. L’interdipendenza economica globale è così fitta e ramificata che un’eventuale bancarotta dei più importanti Stati del mondo capitalista avrebbe ripercussioni disastrose sulla tenuta del sistema comunista cinese. L’Occidente ha però molti motivi di preoccuparsi, almeno tanti quanti ne hanno a Pechino, per l’attuale congiuntura economica nella Repubblica popolare.
Qualche dato. Nell’ultimo trimestre il prodotto interno lordo è cresciuto dell’8,1%. Per chi sulle due sponde dell’Atlantico ha fatto il callo alla crescita zero o alla recessione, sembra il paradiso. Ma il dato va visto in relazione ai tre mesi precedenti, quando il tasso era dell8,9%, per non parlare del 9 o 10% degli anni passati. La Banca Mondiale avverte che «un graduale rallentamento proseguirà nel 2012», assieme a un calo dei consumi e degli investimenti interni, «mentre la domanda esterna rimane debole». In altre parole, le aziende estere colpite dalla crisi acquistano e investono di meno in Cina, e questo danneggia fortemente un Paese la cui crescita economica è basata principalmente sulle esportazioni.
Ardo Hansson, esperto di Cina presso la Banca Mondiale, mette in guardia verso «la correzione in atto nel mercato immobiliare». Un eufemismo fumoso dietro al quale si staglia nitida la gigantesca bolla speculativa in procinto di scoppiare. Negli Usa e in Europa ne abbiamo visto gli effetti nefasti nel 2008. Accade ora che nella Repubblica popolare i prezzi delle case, dopo una vertiginosa corsa al rialzo, siano in rapida traiettoria discendente.
Sullo sviluppo edilizio la Cina ha fondato buona parte dell’impetuosa crescita all’inizio del terzo millennio. Qui nel 2010 sono stati realizzati rispettivamente la metà e il 60% della produzione di acciaio e di cemento dell’intero pianeta. Stupefacente allora notare il divario tra la mole di costruzioni avviate o completate nel corso del 2011 e il venduto. A fronte di 3,6 miliardi di metri quadri edificati, solo 709 milioni sono quelli commercializzati. Neanche il 20%. Non sorprende così che i prezzi siano in caduta libera. Nella sola capitale l’ultimo dato disponibile è un meno 35%. Chi era salito sul carro del credito agevolato per investire nel mattone, si ritrova ricoperto di debiti con un capitale pesantemente svalutato.
Fra il 2008 e il 2009 i milioni di miliardi di dollari pompati dalle banche per alimentare prestiti a buon mercato sono stati anche lo strumento delle autorità per tamponare le tensioni sociali in aumento. Fino a quel momento le compagnie straniere erano presenti in forze nelle zone costiere della Cina meridionale, fin dai tempi di Deng Xiaoping le più esposte agli investimenti esteri. Attirate dai bassi salari, dai ritmi di lavoro forsennati, dalle inesistenti tutele sindacali. A Canton, Shenzhen, Shanghai e dintorni accorrevano masse di contadini poveri in cerca di un posto in fabbrica. Dal 2008 la festa, se qualcuno l’aveva vissuta come tale, è finita. Le autorità locali si sono trovate a fronteggiare l’emergenza di 23 milioni di lavoratori inurbati rimasti disoccupati. Le ditte straniere e le loro consociate cinesi chiudono i battenti o si trasferiscono in altri Paesi asiatici in cui la manodopera costa ancora di meno.
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