Colpire i giudici per educare i lavoratori

by Editore | 26 Aprile 2012 7:35

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Quando ripetono che occorre ridurre gli spazi di valutazione lasciati al giudice dalle clausole generali della giusta causa e del giustificato motivo di licenziamento, i promotori della riforma dichiarano che l’oggetto del contendere è il principio, su cui il diritto del lavoro in Italia si è costruito, che gli interessi e le esigenze dell’impresa e la posizione del lavoratore devono trovare un proporzionato bilanciamento, apprezzato dal giudice nei casi concreti.
L’economia è insofferente verso modi di ragionare diversi dal proprio, ed è insofferentissima verso il diritto. Per natura, esso elabora, nel variare delle condizioni storiche, singoli istituti, come il contratto di lavoro e gli obblighi e diritti che ne derivano, ma sempre tenendo presente un quadro di principi. Questi a loro volta sono ampi, indeterminati, ma anche evocativi, potenti, ricchi di rimandi alla storia, alla cultura, al pensiero: come quelli che dicono che il lavoro è un diritto, e che la libertà  di iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con la libertà , la dignità , la sicurezza umana, o che ogni cittadino ha pari dignità  sociale.
Che si possa ragionare in modi così complessi, articolati e intimamente pluralistici è incomprensibile e preoccupante per mentalità  che si compiacciono di dire che c’è un solo modo di leggere i problemi, e che comunque non si danno alternative né tempo per discuterne. Non sorprende allora che la squalificazione della magistratura sia componente tutt’altro che secondaria della retorica che accompagna la riforma dell’art.18. 
Per i suoi sostenitori, la riforma si impone infatti perché i giudici del lavoro sono contraddittori e faziosi; ma si tace sul fatto che essa sarà  rimedio assai peggiore del male. Perché in qualche misura è vero, i giudizi sono contraddittori. Sulla scia di scelte recenti del legislatore, che hanno squassato la prevalenza della legge e del contratto collettivo, moltiplicato e deregolamentato i contratti di lavoro, e ricordato al giudice che si deve guardar bene dal discutere le insindacabili scelte aziendali, sono nati orientamenti che si ispirano a ‘valori’ di incerto conio come la flessibilità  dell’impiego, e sulla loro spinta indeboliscono le tutele. E’ così che si incrina la compattezza della giurisprudenza: esponendola al mutamento conflittuale e sotterraneo dei valori della convivenza, facendo come se non esistesse un quadro di principi comune, quale è quello, risalente alla Costituzione, che vede nella tutela delle posizioni deboli nel lavoro una finalità  prioritaria. Il nostro legislatore e tutto il nostro discorso politico attuale erodono quel quadro, lo delegittimano: disorientano chi dei principi della nostra convivenza è interprete e garante. 
Questo è ciò che accadrà  col nuovo art. 18: introducendo con la sua portata politica un ulteriore e profondissimo elemento di spaccatura delle coscienze dei giudici; avvalendosi di criteri disarmonici rispetto ai criteri con cui la magistratura ha elaborato gli istituti del diritto del lavoro; reggendosi su un principio di favore per le esigenze datoriali del quale non si riconosce il fondamento nel nostro diritto, il nuovo articolo 18 peggiorerà  la situazione quanto a certezza degli orientamenti giurisprudenziali. Non sarà  così perché al posto delle clausole generali di un tempo – in cui allignerebbe il soggettivismo dell’interprete – avremo regolette dettagliate? I repertori di giurisprudenza traboccano di applicazioni contrastanti date dai giudici a norme ‘chiare’ che si mettono di traverso coi principi che molti magistrati hanno imparato ad amare e rispettare fin da quando erano all’università .
La giurisprudenza del lavoro è diventata contraddittoria per effetto dell’operare nel nostro attuale ordinamento di principi tra loro incompatibili, e di caratura diversa: da una parte la tutela della parte debole, che ha la sua fonte nella Costituzione, fonte autorevolissima in teoria, debolissima perché sempre meno assistita da riconoscimento ed effettività ; dall’altra parte la tutela del datore, assistita dalla forza del fatto.
L’accusa al giudice di prendere in modo preconcetto le parti del lavoratore non solo è inconsistente, ma si rivela portatrice di ben diverso messaggio: oggi sono mal sopportati i giudici che ritengono di dover operare in funzione di un riequilibrio delle posizioni tipicamente sbilanciate e asimmetriche che si danno nel lavoro, e che in questo senso esprimono un favor verso il lavoratore. Quel che si vuole ottenere è rendere i giudici più favorevoli al datore. Allora sempre un giudice fazioso si avrà : convinto di dover ubbidire a valutazioni che prescindono dallo svolgimento del processo, dalla parità  delle parti; se ieri quelle valutazioni erano la stabilità  del lavoro, domani saranno il profitto dell’impresa. 
Le accuse rivolte al giudice contraddittorio e fazioso permettono a coloro che hanno tanto odiato i pretori rossi di un tempo di lavorare per avere tanti bei giudici ‘bianchi’. Si ripropone l’aspirazione, intimamente autoritaria, al giudice burocrate che applica come un soldatino il voluto delle leggi, vale a dire del sovrano. Una democrazia ha bisogno di una giurisprudenza capace di elaborare un quadro di certezza, e di un giudice imparziale. Delegittimando e indebolendo il ruolo della magistratura, la riforma dell’art. 18, col suo attacco all’idea che il lavoro e le relazioni economiche non sono esentate da problemi di giustizia, va nella direzione opposta.

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