Codici, conflitti e malattie in una migrazione a ciclo continuo

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La mostra londinese sull’hagi è un pessimo esempio per tutti. Infatti il materiale che raccoglie è interessante (visto l’argomento, non poteva essere altrimenti), ma avrebbe potuto esserlo molto di più se il British Museum non si fosse rivolto all’Arabia saudita per sponsorizzare, organizzare e orientare l’esposizione. È come se per allestire una mostra su Lourdes ci si rivolgesse al Vaticano: è certo che qualunque accenno critico sarà  espunto. Intanto la mostra sbandiera in continuazione la cifra di tre milioni di pellegrini l’anno «da tutto il mondo» (2.927.000 per l’esattezza nel 2011), ma dimentica di dire che circa un milione 100.000 di questi pellegrini vengono dall’Arabia saudita stessa – un pellegrinaggio domestico, per così dire -, per cui la vera cifra si attesterebbe sotto i due milioni (1.900.000), un numero lo stesso impressionante, e che proprio perciò era inutile gonfiare. La mostra evita poi accuratamente di ricordare che le città  sante dell’Islam sono luoghi di conflitto infra-musulmano (come lo è Gerusalemme per le tre religioni del Libro). Non menziona che il 20 novembre 1979 un fondamentalista sunnita e mille suoi fedeli occuparono la grande Moschea della Mecca, vi si trincerarono e più di cento persone furono uccise nel lungo assedio delle forze saudite: «L’accaduto gettò i dottori della legge in una profonda crisi» scrive Reinhard Schulze (Il mondo islamico nel XX secolo, Feltrinelli). Né il visitatore della mostra potrebbe mai sapere che tra il 1983 e il 1989 gli sciiti khomeinisti provocarono nuovi scontri, e che nell’87 furono 402 le vittime di scontri tra polizia e manifestanti iraniani: l’ayatollah Rulllohah Komeiny aveva appena definito la dinastia saudita «vile e miscredente».
L’hagi è sempre stato ed è ancora uno strumento politico: discussi recenti leader come il generale Pervez Musharraf dal Pakistan, la prima ministra del Bangladesh Sheik Hasina Wajed, il fu presidente indonesiano Abdurrahman Wahid e il suo omologo sudanese Omar al Bashir. Oppure, durante l’embargo, la Libia di Gheddafi e l’Iraq di Saddam Hussein facevano decollare i loro pellegrini per mostrare che potevano violare il blocco aereo. Né il Ministero del Pellegrinaggio e delle Offerte saudita, sponsor della mostra, parla delle due ditte che ha assoldato, una statunitense per assicurare lo scanning degli occhi, e una francese per quello delle impronte digitali dei milioni di pellegrini. 
Ma soprattutto è la multidimensionalità  del fenomeno dell’hagi che la mostra evita di esporre. In realtà  il hagi non fa niente di più e niente di meno che qualunque grande migrazione umana. Tra le altre cose diffonde anche virus, come avvenne per il colera nell’800 che dilagò grazie al combinato composto delle navi a vapore e dei pellegrinaggi: con i vaporetti il viaggio durava talmente poco che la malattia non aveva il tempo di completare il suo decorso (lasciare cioè solo morti o guariti). «Il colera si stabilì alla Mecca nel 1831, nel periodo in cui i musulmani vi si recavano in pellegrinaggio… Da allora fino al 1912, quando il colera scoppiò per l’ultima volta alla Mecca e a Medina, le epidemie di questa temuta malattia accompagnarono costantemente i pellegrinaggi musulmani, comparendo non meno di 40 volte tra il 1831 e il 1912 (William McNeil in La peste nella storia, Einaudi). Hegel morì di colera a Berlino nel 1831: sarebbe una nemesi storica se il filosofo dello «spirito del mondo» fosse perito per un omaggio ad Allah! 
L’hagi però diffonde non solo virus, bensì anche costumi, codici genetici. Porta con sé colera, ma anche idee, valori, nuovi orizzonti. I pellegrini della Jeddah riportavano in Indonesia non solo la loro «santità », ma anche le dottrine integraliste wahabite. Fu grazie ai vaporetti che i musulmani nigeriani riportarono dalle Mecca le idee dei riformatori e diffusero l’influenza dei sufi. Al contrario, sbarcati dai loro Jumbo jet, oggi i pellegrini portano alla Mecca diverse concezioni della società , del ruolo della donna. Perciò i sauditi hanno sempre avuto un atteggiamento misto verso il pellegrinaggio: fieri del loro monopolio, ma sospettosi verso i «contagi» intellettuali ed esosi con i pellegrini come i veneziani verso i saccopelisti. 
In realtà  la mostra non si rivolge a noi laici agnostici, vuole piuttosto acculturare i giovani musulmani inglesi degli sconfinati suburbi dell’est londinese. Viene quasi il sospetto che con la mostra gli organizzatori abbiano voluto acquistare titoli di merito presso gli integralisti per mettersi al riparo da eventuali attentati alla bomba (durante le olimpiadi di agosto?).


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