by Editore | 1 Aprile 2012 9:49
Che cosa resta dell’American Dream? I più tenaci nell’alimentare la leggenda della “società di tutte le opportunità ” sono sempre stati gli immigrati. Ma ora qualcosa si è spezzato anche nella loro fede. La Terra promessa attira meno di una volta. I flussi di ritorno sono in aumento. I dati li fornisce il Department of Homeland Security, il superministero dell’Interno che fu creato dopo l’11 settembre. E i controlli sempre più severi dopo l’attacco terroristico c’entrano qualcosa con il rallentamento dell’immigrazione, ma non spiegano tutto. Ecco le cifre: dal 2000 al 2004 erano entrati 3,3 milioni di illegali; invece dal 2005 al 2010 il flusso dei clandestini si è ridotto a meno della metà : appena 1,5 milioni. Fatta 100 la cifra totale di ingressi dal 1980 al 2010 (11,5 milioni), quelli dal 2000 al 2004 incidono per il 29%, quelli fino al 2010 del 14%: anche misurandoli così il calo è di oltre il 50%.
(segue nelle pagine successive) e passiamo dai clandestini al mondo dell’immigrazione legale, i segnali vanno nella stessa direzione. Gli immigrati legali negli Usa – con visto temporaneo o Green Card a tempo indeterminato – erano 25 milioni nel 2005 e 25,7 nel 2010. Nell’ultima rilevazione a gennaio sono scesi a 20,2 milioni. Dei 5,5 milioni che mancano all’appello, il 70 per cento è ri-emigrato dagli Usa. Probabilmente la maggioranza è tornata a casa.
L’America resta una società multietnica unica al mondo, con il 12% della propria popolazione che è nata all’estero (senza calcolare tutti gli stranieri ormai naturalizzati), per decenni questo paese ha irradiato una capacità di attrazione senza eguali. Ora però qualcosa si è incrinato nel Sogno. Il mito di un paese dove si parte dal basso e si può avere un successo straordinario scalando le gerarchie sociali, è uno dei valori fondamentali su cui è costruita questa società . Le “icone” della mobilità sociale americana si chiamarono nel tempo Benjamin Franklin, Henry Ford. Più di recente Steve Jobs: il fondatore di Apple fu abbandonato dai suoi genitori biologici (tra cui il padre siriano) che lo diedero in adozione,e allevato da una coppia del ceto medio-basso che dovette fare sacrifici per pagargli gli studi. I casi come il suo restano fantastici e quasi impossibili in Europa. Però oggi sono un’eccezione anche qui. Le probabilità di ascesa nella gerarchia sociale sono molto inferiori a quanto si pensi. Un movimento come Occupy Wall Street ha denunciato «l’oligarchia dell’un per cento», ma anche autorevoli studiosi di destra ammettono che l’America è diventata una società più classista e rigida di quanto essa stessa non si voglia rappresentare.
Sul fronte dell’immigrazione, un cambiamento evidenteè il rallentamento dei flussi di clandestini. La punta massima nel numero di stranieri senza permesso di residenza fu raggiunta nel 2007 quando sfioròi 12 milioni. Oggiè sceso a 11 milioni, il 58% dei quali sono di origine messicana.
I controlli più severi alla frontiera meridionale sono solo una delle ragioni. Più importanti sono la crisi economica che dal 2007 al 2011 ha ridotto le opportunità di lavoro; e il crollo della natalità in Messico, il cui tasso di nascita è ormai inferiore a quello degli Stati Uniti. La capacità dell’America di integrare e assimilare gli stranieri, invece, non si è esaurita di colpo. Un indicatore positivoè il balzo che viene compiuto in termini di istruzione, tra la generazione dei genitori che arrivano negli Stati Uniti per la prima volta e quella dei figli. Lo hanno misurato tre studiosi, Dowell Myers, John Pitkin e Julie Park. «Alla partenza – spiega Myers – solo un terzo degli immigrati adulti ha un diploma di scuola media superiore. Ma in base ai tassi di scolarità sappiamo che nel 2030 l’80% dei figli avranno passato la maturità e il 18% avranno la laurea». Tra gli ingredienti che rendono l’America ancora una terra accogliente, ci sono anche scelte politiche recenti. La California è stata all’avanguardia nell’adottare misure che accelerano l’inserimento dei clandestini: è il primo Stato ad avere stabilito per legge che i giovani immigrati illegali hanno il diritto a ricevere borse di studio e agevolazioni sulle rette per frequentare le università locali. L’esempio californiano è stato imitato da New Mexico, Texas,e ora lo Stato di New York si apprestaa varare una norma simile. «Gli studenti che riescono a laurearsi – ha osservato di recente un editoriale del New York Times – hanno più probabilità di trovare lavoro, guadagneranno di più, pagheranno più tasse. Dare una mano perché si realizzi il loro sogno non è soltanto la cosa giusta da fare, è anche un buon investimento». Le politiche “amichevoli” verso gli immigrati si auto-alimentano attraverso un circolo virtuoso: la relativa facilità con cui si conquista la cittadinanza, fa sì che la popolazione immigrata sia una constituency elettorale importante. Barack Obama fu eletto nel 2008 anche grazie a un sostegno massiccio fra gli ispanici.
Ma i dati sulla mobilità sociale sono una tremenda delusione per chi è rimasto fermo all’iconografia dell’American Dream di una volta. Non sono solo i movimenti radicali come Occupy Wall Street o gli studiosi progressisti a denunciare il regresso della mobilità sociale verso l’alto.
Perfino The National Review, una delle riviste più autorevoli della destra, di recente ha dato spazio a un’inchiesta sul fatto che «alcuni paesi europei o anglofoni (Scandina via, Australia, Nuova Zelanda, Canada, ndr) ci hanno superati nella mobilità sociale». Isabell Sawhill, economista della Brookings Institution (un think tank autorevole e bipartisan) afferma che tra gli esperti «è ormai un dato di fatto accertato e condiviso: gli Stati Uniti hanno una mobilità sociale inferiore a molti altri paesi sviluppati». Una ricerca condotta dall’economista svedese Markus Jantti ha rivelato che il 42% degli americani che fa parte del 20% della popolazione più povera tale resta anche da adulto. Questa immobilità sociale è molto peggiore rispetto alla Danimarca, dove solo il 25% non riesce a uscire dal livello di povertà in cui è nato, ed è perfino peggiore rispetto alla “classista” Inghilterra dove solo il 30% resta bloccato in quel quinto della popolazione a cui apparteneva alla nascita.
«Nonostante si continui a descrivere l’America come una società senza classi – sostiene lo studioso Jason De Parle – il 65% della popolazione che nasce nel 20% più povero della società , rimane per tutta la vita all’interno delle classi più basse. Lo stesso vale peri privilegiati: se nasci nel 20% più ricco della società , hai una probabilità molto elevata di rimanerci per sempre». Il mito cominciaa essere scosso da questa scoperta. La potenza dei numeri fa vacillare anche gli ideologi conservatori. John Bridgeland, che fu consigliere del presidente George W. Bush per le politiche sociali, oggi ammette che «le vie di accesso all’American Dream si sono ristrette». Perfino il candidato ultra-conservatore Rick Santorum è arrivato a riconoscere che «ci sono paesi europei dove si accede più facilmente al ceto medio che da noi». Come si spiega? Gli esperti citano due ragioni fondamentali. Una è l’avarizia del welfare americano, deperito da decenni di attacchi conservatori: senza aiuti pubbliciè più difficile sollevarsi dalla povertà . Una seconda ragione è la debolezza dei sindacati, che si traduce in livelli salariali molto bassi per i lavori più umili.
Reihan Salam sulla National Review sostiene che non bisogna focalizzarsi troppo sulla “mobilità relativa”, misurata rispetto agli altri gruppi sociali. Nell’esperienza di ciascuno, la mobilità assoluta conta di più: il fatto cioè che i figli degli immigrati guadagnano, regolarmente, molto più dei genitori. Un censimento del Pew Research lo conferma: l’81% degli americani ha redditi nettamente superiori ai genitori. Ma questo non basta necessariamente a uscire dalla trappola della povertà . Il numero di immigrati che tornano a casa, «votando con i piedi», indica che la disillusione verso il Sogno è arrivata fino a loro.
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