Carlo Lizzani “Quando Cocteau non mi fece vincere Cannes per paura dei comunisti al potere”

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Ha una bel viso affilato Carlo Lizzani. Il corpo asciutto lievemente chino in avanti, come se ascoltasse un interlocutore invisibile. Mentre mi accomodo al tavolo rotondo del saloncino, nella sua casa romana, noto che la stanza è tappezzata dai quadri di Edith Bieber, la moglie che Lizzani conobbe durante Germania anno zero il film in cui faceva da aiuto-regista a Roberto Rossellini. È un atto d’amore. Edith, che non sta bene, credo sia la sola apprensione che colgo in quest’uomo dalla vita lunga e serena. Compie oggi 90 anni. Il cinema lo celebra con una grande festa (alla Casa del cinema) e a maggio uscirà  un suo nuovo libro per le edizioni Eri Il mondo in 35 millimetri. È incredibile in quanti posti Lizzani è stato. «È vero. Ho girato tutto il mondo grazie al cinema. Sono stato un anno in Cina durante le riprese di un mio film, ho girato in Africa, in America, in Australia. Mi hanno invitato ovunque. Ho lasciato tracce. E mi accorgo ora che tutto questo è diventato una sfida alla sparizione».
È umano lasciare dei segni.
«Appartiene alla nostra natura. Siamo parte di una storia che per un po’ resterà  scolpita nelle memoria di qualcuno. Poi, il tempo farà  il suo lavoro. Mi sorprendo a volte nel pensare quanto sia stato fortunato in ciò che ho fatto».
Lei ha iniziato girando documentari.
«Come tutti quelli della mia generazione. Perfino Antonioni cominciò girando un documentario. Ma io in realtà  iniziai come critico cinematografico. Scrivevo sulla terza pagina di Roma fascista, un giornale di fronda e poi, chiamato da Giuseppe De Santis e Gianni Puccini, scrissi sulla rivista Cinema che per me fu una palestra anomala. La dirigeva Vittorio Mussolini».
Il fascismo guardava al cinema come a un mezzo fondamentale della formazione del consenso.
«Quello era un aspetto, l’altro è che capì perfettamente che il cinema apparteneva ai processi di modernizzazione. Tornando ai documentari, il mio primo lavoro lo realizzai nel 1948 con Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato, che mi permise di conoscere una realtà  agghiacciante: vedere come viveva la gente nei sassi di Matera».
Vedeva quel mondo con l’occhio del comunista?
«Ero comunista, certo. Il partito mi aveva avvicinato nel 1942 e fino al 1945 mi sono considerato una specie di “rivoluzionario di professione”. Lavoravo con Berlinguer e Reichlin. E vedendoli capii che fare politica seriamente richiedeva doti che non avevo: la tenacia, la pazienza, il sopportare la fatica del ripetitivo, oltreché naturalmente l’intelligenza di saper leggere gli eventi. Per questo, a un certo punto, passai al gruppo dei cineasti».
Girò anche un documentario su Togliatti.
«Fu dopo l’attentato del 1948. L’Italia era di nuovo sull’orlo di una guerra civile. Raccontai le tensioni che attraversarono il paese».
In fondo, si può dire che lei sia stato l’espressione dell’egemonia culturale del Pci. Ritiene che questo l’abbia condizionata?
«L’egemonia ci fu, è indiscutibile. Ma gli fu regalata. La destra oltre che incolta era incapace di distinguere. Metteva nello stesso mucchio registi come Monicelli, che non era comunista ma socialista, oppure come Germi definito simpatizzante del Pci quando in realtà  era un anticomunista. Poi è chiaro che il Pci aveva una influenza, esprimeva delle riserve. Ricordo che avrebbe preferito un finale più ottimista per Ladri di biciclette. Ma, dopotutto, era autentico il suo trasporto per la nostra cinematografia».
Aderì al neorealismo.
«Oggi può sembrare una cosa scontata. Ma allora no. Perché oltre ai contenuti, quelli che avevano fatto dire ad Andreotti che i panni sporchi si lavano in famiglia, c’era una rivoluzione formale, un linguaggio nuovo. Zavattini disse che era molto più difficile raccontare un fatto vero che inventare una favola. E non bastava uscire dai teatri di posa e far lavorare attori che non avevano mai recitato. Occorreva un cambio di mentalità . Una sensibilità  letteraria e pittorica completamente diverse. Perché il neorealismo, tra le tante cose, fu anche un’esperienza ricca di riferimenti culturali».
Nel suo lavoro è stata più importante la pittura o la letteratura?
«Entrambe ma in modo diverso. Quando diressi la Biennale Cinema, dal ’79 all’83, previdi nel nuovo statuto questa presenza interdisciplinare».
Lei ha tratto dei film da alcuni romanzi italiani. Come si passa da un linguaggio a un altro?
«Se sei troppo fedele rischi l’appiattimento, se ti allontani rischi il tradimento. Ma dipende anche dal romanzo, dalla storia, dalla dinamicità  dei personaggi. Per me fu abbastanza semplice adattare La vita agra di Bianciardi. Più complicato fu con Cronache di poveri amanti».
Perché?
«Luchino Visconti scrisse, insieme con Sergio Amidei che era stato lo sceneggiatore di Roma città  aperta, la sceneggiatura del romanzo di Pratolini. Prevedeva un film di tre ore che nessun distributore accettò. A quel punto mi proposi timidamente dicendo che se Luchino avesse rinunciato avrei potuto provare a farne io una riduzione. Visconti e Amidei, con grande generosità , mi regalarono la sceneggiatura. La asciugai. Pratolini accettò l’ulteriore riduzione e poi girai il film. Che fu un successo in tutto il mondo».
Concorse al festival di Cannes.
«Sì, e rischiò di vincere la Palma d’oro. Ma poi la notte prima della proclamazione un tale si intrufolò nella stanza di Jean Cocteau – fu lui stesso a raccontare l’episodio ad Amidei – e inginocchiatosi vicino al letto in quello spazio semibuio, disse all’orecchio dello scrittore, nonché presidente della giuria: se Cronache di poveri amanti vince il festival, i comunisti trionferanno alle elezioni in Italia».
Una leggenda.
«Forse, ma esprime bene il clima di quegli anni. Alla fine il mio film ebbe il gran premio internazionale».
Era il 1954. Nel 1951 lei aveva girato il suo primo film Achtung Banditi!
«Che quando lo proponemmo in un primo momento ci risposero: ancora un film sulla Resistenza. In precedenza avevo lavorato come sceneggiatore e aiuto-regista per De Santis, Lattuada e Rossellini che mi volle con lui per Germania anno zero».
La fama di Rossellini era già  allora così vasta?
«Sia Roma città  aperta che Paisà  lo avevano imposto a livello mondiale. Marlene Dietrich che fu contattata per una serie di testimonianze sulla Germania fu entusiasta di offrire la sua collaborazione. Uscimmo alcune sere a cena e poi la rivedo ancora nel suo salottino seduta davanti alla macchina da scrivere mentre batteva sui tasti spremendo i suoi ricordi. Era deliziosa e ancora bellissima. In un angolo, seduto su una poltrona, c’era silenzioso, anche Jean Gabin, il suo amante. Ancora mi stupisco pensando a quei miti».
Dei miti sono stati anche Visconti, Antonioni, Fellini, Rossellini. Perché il nostro cinema ha saputo esprimere questa qualità  così alta?
«Il fascismo ha avuto la sua importanza. Sia in positivo, perché ha promosso il cinema e anche in negativo costringendo a una reazione contro la retorica e le devastazioni che provocò. E poi vi ha contribuito la nascita di un gruppo coeso che nonostante le differenze ha saputo interpretare il canone del neorealismo».
Sarebbe a dire?
«Quando uscì Roma città  aperta fu chiaro che il film non apparteneva a nessun genere. Il pubblico amava il western, il film di guerra e di avventura, o quello sentimentale. Si trovò improvvisamente davanti a un prodotto che mescolava tutto. E questa fu la prima novità . Poi c’era un modo di girare privilegiando l’orizzontalità  del paesaggio».
Una scelta tecnica o casuale?
«Assolutamente intenzionale. Voluta per allontanarsi da quella verticalità  trionfalistica e monumentale che c’era nel cinema fascista. E sempre a proposito di tecnica c’era l’uso particolare che facevamo del piano sequenza, tra l’azione primaria e lo sfondo».
Si spieghi meglio.
«Massimo Girotti mi raccontò che quando girava Ossessione a Ferrara c’era la scena in cui lui litigava con Clara Calamai. Visconti fece passare non so quante ore perché sul balcone di fronte una donna che batteva i suoi panni, fosse ripresa dal vero. Questo modo di girare ci venne da Renoir: un delitto in primo piano e sullo sfondo una donna che canta».
A proposito di generi lei è stato un po’ un eclettico nel suo lavoro cinematografico.
«Dopo la stagione neorealista ho fatto di tutto per passione e piacere: la vita quotidiana, l’invettiva sociale, la cronaca nera, la storia e perfino il western».
Nei famosi “spaghetti western” lei si firmò con un nome americano.
«Erano i produttori a pretenderlo. Poi in realtà  ho fatto solo due film western e uno dei due era un apologo per parlare in realtà  dei braccianti. Il film si chiamava Requiescant e affidai una parte a Pasolini che conoscevo fin dai tempi de Il gobbo, per il quale aveva collaborato alla sceneggiatura».
Com’era Pasolini attore?
«Bravo, la faccia si prestava perfettamente. Gli avevo affidato il ruolo di un prete della liberazione. Mentre il protagonista era Lou Castel».
L’attore preferito da Bellocchio.
«Un grande interprete che si perse nell’alcol. Rividi Castel anni dopo, ridotto malissimo e provai una pena infinita per il modo in cui il destino lo aveva ridotto».
Ha provato mai invidia per i suoi colleghi?
«Sì, è stato un sentimento presente, però mai dominante. A volte ho pensato che certe cose avrei voluto farle io. Però la vita mi ha dato anche altri doni: la possibilità  di scrivere e di viaggiare. Mi sento come Lorenzo Da Ponte. Fu un grande librettista. Ma non era Mozart. Però Mozart sarebbe stato lo stesso senza Da Ponte? Ecco, ho scritto per il cinema e sul cinema, ho girato film e ho vissuto convinto che ogni cosa dovesse avere una tensione morale, un impegno verso gli altri».
Cosa significano i suoi 90 anni?
«Ho cominciato da poco a darmeli. Capisco che sono una condanna perché il tempo accelera e passa come un fulmine».
Le provoca ansia?
«No, aver vissuto così a lungo è già  una vittoria. O meglio la fine di una scommessa. In fondo, siamo il risultato di uno spermatozoo che è andato a meta a fronte dei miliardi che hanno fallito. E alla fine quello sono io, il frutto del caso».
Devo presumere che non crede in Dio?
«Come potrei? È il caso che ci disegna. Apro gli occhi e mi accorgo di essere dentro uno spettacolo, gettato su un palcoscenico. Sei un attore finché dura la recita. A me il caso ha dato il cinema che mi ha permesso di vivere il Novecento vedendone i protagonisti».
Un secolo tosto.
«Oggi ho l’impressione che si sia veramente chiuso. Stiamo vivendo un nuovo dopoguerra, senza che ci sia stata una terza guerra mondiale. Percepisco molte macerie. Non sono le stesse che vidi in Germania quando vi andai con Rossellini. Sono macerie invisibili: ideali in frantumi, sogni andati in pezzi, speranze distrutte. Sembra il lamento di un vecchio. Ma in tutto questo non ho perso l’ottimismo che la parola uomo ancora mi suscita».


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