Bossi travolto dallo scandalo lascia la guida della Lega “Chi sbaglia paga, me ne vado”

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MILANO – «Basta, lascio tutto». Ci ha pensato su ventiquattro ore e alla fine ha gettato la spugna. Sfiancato, travolto dal ciclone giudiziario che si è abbattuto sulla Lega, sul «cerchio magico», sulla sua famiglia, sul Capo ormai alle corde. Solo, come tutti i leader quando cadono. Dopo ventitre anni Umberto Bossi molla il timone del Carroccio. Si dimette da segretario federale piangendo, e come lui si commuovono tutti gli altri, i colonnelli, i dirigenti, mentre lui annuncia la resa e si fa da parte, nel pomeriggio più lungo e sofferto della storia della Lega. «Dimissioni irrevocabili», sottolinea il Senatur quando il consiglio federale, prima di eleggerlo presidente del partito, gli chiede di tornare sui suoi passi. «Lascio per il bene del movimento e dei militanti, e perché c’è di mezzo la mia famiglia». Teso, amareggiato, rassegnato. Ma anche pronto a tutelare, se ancora possibile, la «sua» creatura politica. A farla sopravvivere a se stesso e al terremoto che l’ha centrata. «Chi sbaglia deve pagare, qualunque sia il cognome che eventualmente porti». Il riferimento al figlio Renzo – il cui nome ricorre nelle carte giudiziarie dell’inchiesta sull’ex tesoriere leghista Francesco Belsito – è chiarissimo.
LA MOSSA A SORPRESA
L’uscita di scena di Bossi si consuma alle quattro del pomeriggio. E’ lo showdown della Lega, la fine di un’epoca ed è anche una mossa a sorpresa. Il Senatur l’ha decisa la notte prima ma se l’è tenuta in tasca fino all’ultimo. Le carte erano rimaste (quasi) coperte nonostante i rumors insistenti su un possibile passo indietro. E’ il segnale che il capo, forse tradito da quelli a lui più vicini, forse tenuto all’oscuro o forse consapevole ma non del tutto, ormai è smarrito, non sa più di chi fidarsi. «Adesso ho capito, mi hanno preso in giro», si sfoga nel suo ufficio al terzo piano di via Bellerio prima di scendere per il vertice dell’addio. «Oggi decido la nomina del nuovo segretario amministrativo – dice all’Ansa alle 10, sono passate quarantotto ore dalle prime perquisizioni nella sede della Lega – . Il consiglio federale si riunisce per questo». Gli chiedono se non c’è altro all’ordine del giorno. E lui, di nuovo: «Oggi nominiamo il nuovo segretario amministrativo». Ha già  pronte le dimissioni. Le ha meditate a lungo, ha deciso che, in attesa delle decisioni del congresso federale, affiderà  il Carroccio a un triumvirato: Maroni Calderoli e «un veneto», che poi verrà  individuato in Manuela Dal Lago. «Non nomino una sola persona altrimenti verrebbe vista come il mio successore, e non va bene», spiega nel silenzio della sala del consiglio prima di scoppiare in lacrime. Poi si consegna ai tre traghettatori. «Fate pulizia, senza guardare in faccia a nessuno e senza badare ai cognomi. Se ha sbagliato mio figlio, pagherà  anche lui. La priorità  è il bene della Lega e continuare la battaglia». 
“MI FACCIO SENTIRE”
Le ventiquattro ore che hanno cambiato la storia del Carroccio hanno un inizio non meno drammatico dell’epilogo. I giochi si decidono mercoledì. Le prime notizie sul coinvolgimento della famiglia Bossi nell’inchiesta giudiziaria sono ormai pubbliche. Il Senatur, sono le due del pomeriggio, esce dalla villetta di Gemonio – quella che secondo i pm è stata ristrutturata coi soldi del partito. E’ diretto in via Bellerio, dove si riunisce la segreteria politica. Un cronista de La7 si avvicina al cordone degli agenti della scorta, gli chiede «dove sono finiti i soldi?». Lui si gira e risponde «vaffanculo», «vieni che te li faccio vedere» (mimando il gesto del cazzotto). Poi si rivolge ai poliziotti e li esorta, «picchiali», «investili», mandateli via». Il vertice nella sede della Lega è tesissimo. Clima da ultimi giorni di Pompei. Bossi legge i giornali, chiede, telefona, resta a lungo in silenzio mentre i colonnelli gli dicono che «serve un segnale di discontinuità ». A un certo punto si alza e va via, un’ora prima che finisca la segreteria. «Vado a casa e mi faccio sentire», tuona. Lo vedono allontanarsi dall’ufficio con una faccia mai vista prima. 
LA NOTTE DELLA VERITA’
Mercoledì sera. Nel castelletto di Gemonio è ora di cena. Bossi ha capito che oltre non si può andare. La base leghista non lo segue più, gli si è rivoltata contro, le nubi delle procure gravano sulla sua famiglia. Centinaia di migliaia di euro per «sostenere le spese private», auto, case, viaggi, feste, lauree, multe, avvocati. Va in scena un vertice da resa dei conti. Ci sono la moglie Manuela Marrone, i figli Renzo, Roberto Libertà , Sirio Eridanio. Passa anche Riccardo, il primo e il più grande, pilota di macchine. C’è Rosi Mauro, vicina di casa, fedelissima di Umberto e di Manuela ma ormai presenza scomoda, stando alle carte giudiziarie. L’ex ministro delle riforme chiede spiegazioni, chissà  se e quante volte l’avrà  fatto in questi mesi. «Sono balle o è vero?». Quando va a dormire è l’alba, l’uscita di scena è già  scritta. Il pomeriggio dopo il vecchio guerriero ringhierà  un «si scordino che io scompaia, resto sempre a disposizione della causa»: pare solo uno stanco grido di battaglia. Bossi ha riflettuto a lungo, autonomamente, sì, per una volta da solo, senza essere tirato per la giacchetta dai cortigiani. Ha compreso perfettamente di essere ormai un peso, un ingombro che rischia di trascinare la Lega nel baratro. Lo certifica lui stesso: «Ora io sarei di intralcio. Occorre fare chiarezza su questi soldi».
“LA MISSIONE DEVE CONTINUARE”
Il giorno della svolta, dunque. Il Bossi che si presenta ieri in via Bellerio più che un «gladiatore del Nord», come osserva Bruno Galli, docente di Storia delle dottrine politiche e politologo di area, è un leader all’angolo, stretto nei panni del padre padrone (di un partito in confusione) e del padre naturale (dei figli tirati in ballo nell’inchiesta della magistratura). Come Scajola è persino riuscito a infilarsi nell’angolo del “a sua insaputa”: «Denuncerò chi ha usato i soldi per la ristrutturazione di casa mia». E’ alle corde, deve uscire dall’imbarazzo. L’Audi scivola dietro al cancello alle 15. Bossi resta chiuso nel suo ufficio tre quarti d’ora. Poi affronta il momento più difficile dei suoi 30 anni di Lega. «Mi dimetto, ma la missione della Lega deve continuare». Scoppia in lacrime, si commuovono tutti, Maroni, Calderoli, Giorgetti, i segretari nazionali, gli altri dirigenti del partito. Maroni – che all’uscita verrò contestato al grido di «giuda traditore» da un gruppo di militanti del cerchio magico – gli dice «Umberto non pensare di andare in vacanza… se deciderai di ricandidarti come segretario al consiglio federale in autunno io ti sosterrò».
“CHI HA SBAGLIATO PAGHI”
Sono le 19,15. Dopo quattro ore Bossi lascia via Bellerio. I cronisti accerchiano la macchina. E’ livido, lo sguardo fisso, neanche un cenno dietro il finestrino. Se è vero, come dice, che il «peso di un uomo non lo fa la carica ma il cervello, la testa e il cuore», questo è il momento dello scarico. Ha mollato anche lui, il campione del celodurismo fiaccato dalla malattia e da molto altro. ««Ho fatto la cosa giusta – dice alla Padania in un’intervista in edicola oggi – . D’altra parte, la presenza dei nomi che chiamano in causa la mia famiglia e la Lega mi hanno portato a questa decisione. Non ho voluto restare – aggiunge – lasciando che si insinuassero dubbi sulla reale pulizia dentro il movimento». E’ l’ultimo atto e lui è un po’ confuso. L’inchiesta? «E’ una manovra chiara contro di me e il partito», attacca. Allo stesso tempo, però, auspica che «si faccia chiarezza sui soldi» e che «chi ha sbagliato paghi». Lo incensano tutti, adesso. Un «gigante», «un grande», «uno statista vero». «Da domani sono un militante della Lega, anzi un semplice simpatizzante». Così lasciò il Senatur.


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