BIRMANIA, UNA NUOVA ERA A LIBERTà€ VIGILATA
Ammirata nel mondo intero per aver opposto costantemente la non violenza alla brutalità dei militari, al potere in Birmania da mezzo secolo, domenica scorsa Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, è stata eletta deputata di una circoscrizione rurale del sud di Rangoon, la città più importante ed ex capitale del Paese.
La sua vittoria è nobile ed entusiasmante quanto quelle di Gandhi, di Martin Luther King o di Nelson Mandela – ma attenzione! Per questa gran signora così forte e fragile, domani la partita sarà anche più difficile di quanto già lo è stata ieri, perché le resta tutto da fare, sostenuta solo dal fervore popolare che la circonda e dalla dinamica della sua elezione. Non è poco, anzi è moltissimo, è qualcosa di enorme; ma l’emozione non può farci dimenticare la realtà .
Consentendole di farsi plebiscitare in queste elezioni parziali, i generali birmani le hanno concesso solo una libertà vigilata. Aung San Suu Kyi e gli altri 36 eletti del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, entreranno a far parte di un Parlamento con un numero di deputati dieci volte maggiore, totalmente dominato dai militari e dai loro uomini. Potranno utilizzare quella tribuna, farsi ascoltare, beneficiare dell’immunità parlamentare; e persino, molto probabilmente, ottenere il sostegno di altri eletti che pure aspirano a un vero cambiamento, auspicato del resto anche da una parte dell’esercito. Un nuovo giorno sta per incominciare. Ma la signora di Rangoon dovrà essere in grado di consolidare questo progresso politico col conseguimento di conquiste sociali, senza le quali l’entusiasmo di oggi finirà per raffreddarsi. Dovrà procedere celermente, ma senza forzature, e soprattutto canalizzare la rivolta delle minoranze etniche che costituiscono un terzo della popolazione.
I birmani occupano solo la parte centrale del Paese, mentre ai confini montagnosi dell’India, del Bangladesh, della Cina, del Laos e della Thailandia, in tutta a sua area periferica terrestre, la Birmania presenta un mosaico di popolazioni minoritarie denominate Naga, Chin, Kachin, Wa, Chan o Karen, mai incoraggiate a integrarsi in un Paese di cui rifiutano l’autorità . Con le armi o con la disobbedienza civile, questi popoli lottano per l’indipendenza o per una totale autonomia. E se nel 1962, a quindici anni dalla fine della colonizzazione britannica, l’esercito prese il potere, fu in larga misura proprio a causa di questi secessionismi, che però non riuscì mai a sconfiggere.
Aung San Suu Kyi beneficia presso questi popoli di un credito morale ereditato da suo padre, artefice dell’indipendenza birmana, che seppe conquistarsi la loro fiducia. L’esercito era stato a lungo il loro avversario comune. Ma non è detto che saranno disposti a dar tempo alla nuova eletta. Nell’attuale periodo di interregno, potrebbero anche essere indotti a premere sull’acceleratore. Ma in caso di intensificazione degli episodi di guerriglia nelle aree di confine, la signora di Rangoon verrebbe a trovarsi in una situazione ancora più ingestibile. La Birmania sta dunque vivendo un momento che ricorda le incertezze e le difficoltà di ogni transizione democratica.
Se questa era la prima lezione, le altre sono nettamente più incoraggianti. La seconda è che dopo il trionfo delle rivoluzioni di velluto del 1989, l’arma della non violenza tende sempre più ad affermarsi. La terza è che la democrazia continua a segnare punti nel mondo. Ha compiuto progressi considerevoli nell’ex blocco sovietico, nonostante l’inamovibilità di Vladimir Putin e i nuovi potentati dell’Asia centrale; ha spazzato via le dittature militari che dominavano l’America Latina fino alla fine degli anni Ottanta; sta scuotendo il mondo arabo, e scava il suo solco sul continente africano. Se è vero che in molti Paesi – primo tra tutti la Cina – la democrazia è tuttora inesistente, o di pura facciata, nel volgere di un quarto di secolo si è tuttavia estesa a un ritmo senza precedenti nella storia, grazie ai i nuovi mezzi di comunicazione che favoriscono il contagio della libertà ; e la fine della guerra fredda ha indebolito molte dittature che prima godevano della protezione dell’Unione Sovietica o degli Usa.
La quarta lezione di Rangoon riguarda le sanzioni economiche internazionali, che lungi dall’essere risibili, si dimostrano anzi estremamente efficaci. Certo, non piegano le dittature da un giorno all’altro; hanno bisogno di tempo per far sentire i loro effetti. Ma senza di esse i generali birmani, ormai ridotti a intrattenere rapporti commerciali con la sola Cina, non avrebbero mai liberalizzato la censura, né rilasciato i prigionieri politici e accettato libere elezioni, aprendo così la strada a quella che Aung San Suu Kyi ha definito «una nuova era».
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
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