Beni comuni e democrazia
Vista la piega assunta dalla discussione, provo a rendere esplicita questa mia adesione in qualche modo “condizionata”.
Tra il 2010 e il 2011, nel peggior tempo del berlusconismo e quando sembrava che tutto fosse ridotto a duello tra politica e antipolitica, ha preso corpo un insieme di iniziative che mostravano come un’altra politica fosse possibile, non in astratto, ma attraverso azioni comuni dei cittadini. Ricordiamo tutti le molte, grandi manifestazioni delle donne, degli studenti, dei lavoratori; il successo grande e inatteso della raccolta delle firme e poi del voto referendario con il quale ventisette milioni di elettori hanno detto no alla privatizzazione dell’acqua, al nucleare, all’uso privato della legge; la campagna contro la “legge bavaglio”, che ha contribuito in modo determinante a bloccare una aggressione alle libertà ; il ritorno della Costituzione come riferimento forte e comune. Tutti movimenti senza leader, senza i quali non sarebbero stati possibili i successi del centrosinistra alle elezioni amministrative (e, prima, l’affermazione nelle primarie dei candidati non di partito: una conferma è venuta dalle primarie di Genova).
E Ilvo Diamanti ha documentato come nelle campagne elettorali amministrative vi sia stata una partecipazione spontanea senza precedenti.
I partiti non hanno colto la novità , anzi hanno preso le distanze, sono tornati i vecchi inviti a non cedere al movimentismo. Bersani, sia pure all’ultimo momento, aveva compiuto un atto politico significativo, schierando ufficialmente il Pd a favore dei referendum. Ma poi tutto è finito lì, nessuna attenzione è stata prestata ai protagonisti di quella vicenda, anzi si è concretamente operato per cancellare il risultato del referendum sull’acqua, tentativo contro il quale si sta organizzando un movimento di “obbedienza civile”. Il necessario riconoscimento dei partiti e del loro ruolo non può convertirsi in contemplazione passiva. Il patrimonio accumulato in questi ultimi due anni non può essere disperso, e questo esige una iniziativa nuova, perché i movimenti sono sempre esposti al rischio del dissolversi, soprattutto quando si tratta di single issue mouvements, di movimenti con un unico e dichiarato obiettivo, raggiunto il quale sembra quasi che la loro esistenza non abbia più senso. Questo è vero, almeno in parte, quando il sistema politico è in buona salute. Così non è nei tempi di crisi profonda quando, invece, è indispensabile valorizzare e mobilitare tutte le energie presenti nella società . Dai partiti non sono venuti segni significativi in questa direzione. Si sono così creati due circuiti politici, tra i quali è indispensabile trovare una connessione, pena una generale perdita di senso e di capacità di cambiamento della politica. E anche per evitare che un impegno politico significativo sia ricacciato nello scoramento, dell’abbandono, della rabbia. E questo impone che non vi sia alcuna compiacenza verso le prassi degenerate dei partiti, alle loro derive oligarchiche, se si vuole ricondurli al modello costituzionale che li vede attori della determinazione dell’indirizzo politico con metodo democratico.
Il movimento dell’acqua
E’ enfatico, e polemico, parlare di un “soggetto politico nuovo”? Ma questa non è una forzatura politica e linguistica. E’ la registrazione di un dato di fatto, di un patrimonio che, nell’interesse comune, non può essere disperso. Questa realtà molteplice deve trovare una propria forma di riconoscimento e organizzazione che, lo dico subito, non può essere finalizzata alla creazione di liste elettorali, per gli enormi rischi che ciò comporta, a cominciare dalla tentazione offerta a chi cerca un’occasione per riscattarsi da passati fallimenti, a chi è sempre alla ricerca di contenitori per realizzare ambizioni personali, non per ottenere risultati politici. Per la sua origine, assai legata anche all’uso delle reti sociali, questo nuovo soggetto deve piuttosto muoversi verso una organizzane a rete, mettendo in particolare a frutto l’esperienza del movimento per l’acqua bene comune, che ha consentito a realtà diverse di collegarsi, dialogare, agire d’intesa. Ma questo è l’opposto di leadership provvisorie, itineranti. Queste parole sono comprensibili come reazione alla personalizzazione estrema della politica, alla chiusura oligarchica dei partiti. E dunque sono benvenute quando sono il segno dell’apertura di cui parlavo all’inizio, come riconoscimento che in politica v’è posto per tutti, che la partecipazione non deve essere ridotta a subordinazione, ad una semplice affiliazione Tuttavia l’indispensabile capacità di produrre direzione politica non può essere affidata unicamente ad una spontaneità colorata da passioni, da emozioni, che certamente hanno peso, ma non possono connotare interamente il campo del politico. E’ il problema delle nuove soggettività politiche, ineludibile nel tempo della crisi della rappresentanza (vale la pena di dare un’occhiata ai due numeri di “Filosofia politica” dedicati appunto al soggetto, in particolare a ciò che scrive Nello Preterossi in apertura del numero 3 del 2011).
Non mi preoccupa una certa nebulosità della proposta iniziale, comunque necessaria per non disperdere esperienze rilevanti e per contribuire ad un rinnovamento della politica di cui sarebbero gli stessi partiti a beneficiare. Nel “Manifesto” è correttamente impostato il rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, anche facendo riferimento alle nuove opportunità offerte dall’articolo 11 del Trattato di Lisbona. Meno limpido è il modo in cui viene delineato il rapporto tra il soggetto politico “vecchio”, il partito, e quello “nuovo”, perché per quest’ultimo è necessaria una elaborazione ulteriore, che dovrebbe consigliare analisi meno trionfalistiche sul nuovo e meno liquidatorie del vecchio. E’ comprensibile che ciò avvenga, poiché a questo spingono molte iniziative di questi mesi, il fascino del locale, di Cattaneo, della “democrazia di prossimità “. Ma i movimenti già ricordati andavano anche oltre il locale, ponevano l’ineludibile domanda di una nuova organizzatore dei poteri che non può germogliare solo dalla dimensione locale, anche se proprio qui può trovare nuovo impulso, cominciando a rimuovere le chiusure che hanno caratterizzato il potere centrale in tutte le sue diramazioni.
Non buttiamo il Novecento
E poi. Per radicare un nuovo soggetto politico davvero è necessaria quella tabula rasa che compare nel “Manifesto”? Via il Novecento, via tutto il diritto borghese, via l’ingannevole Europa. Ricordiamo l’ “Indirizzo” di Karl Marx ai critici del suo sostegno alla legge delle dieci ore: «per la prima volta, alla chiara luce del sole, l’economia politica del proletariato ha prevalso sull’economia politica del capitale». Il Novecento non è stato soltanto il secolo breve, il secolo tragico del totalitarismo. E’ stato il secolo in cui, nell’Europa continentale soprattutto, un nuovo soggetto politico, la classe operaia, è stata all’origine del nuovo costituzionalismo aperto a Weimar, con la prima delle “lunghe costituzioni” che avrebbero modificato profondamente un quadro istituzionale fino a quel momento dominato soprattutto dal prodotto di un altro soggetto politico, la borghesia con il suo il codice civile. Non buttiamo via il compromesso socialdemocratico e il Welfare State, che non sono riducibili ad una astuzia del capitalismo, ma sono il risultato del ruolo giocato dai partiti di massa. Non regaliamo ad interpretazioni regressive la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, di cui si indicano ombre, ma si trascurano del tutto le molte luci.
Certo, oggi il quadro è cambiato, drammaticamente. Ma proprio per questo è necessaria una nuova ricomposizione delle forze, non dirò un nuovo blocco sociale, alla quale un soggetto politico nuovo può dare un impulso finora mancato. E sono necessarie analisi politiche ed istituzionali non approssimative. Se si vuol difendere la democrazia parlamentare, non si può cadere in una tipica trappola berlusconiana sostenendo che il governo Monti non è legittimato perché non è passato da un voto popolare: questa è la logica populista e della democrazia d’investitura che ha devastato nei due decenni passati il nostro sistema politico. Né si può affermare che siamo di fronte ad una mortificazione del Parlamento. Abbiamo dimenticato la Camera chiusa per mancanza di lavoro e il voto a grande maggioranza su Ruby nipote di Mubarak? Per amor di polemica rischiamo di dimenticare altre questioni, davvero centrali come l’autoritario governar per decreti e il modo in cui si costruisce l’agenda politico-parlamentare.
La questione proprietaria
Tocchiamo così i contenuti dell’azione politica, alla quale mi pare che il “Manifesto” dia un contributo significativo con la sottolineatura dell’importanza del riferimento ai beni comuni, come dato che caratterizza la fase attuale. Non è una bizzarria, né un tema marginale. Con esso, finalmente, torna in tutta la sua rilevanza la questione proprietaria. E qui è indubbio il merito dell’altra politica, così come è indubbia la permanente insensibilità della politica ufficiale. I partiti secondano l’offensiva contro i risultati del voto referendario, che hanno indicato nell’acqua un bene comune e hanno abrogato la norma che prevedeva che la sua gestione potesse essere oggetto di profitto. Il Parlamento ignora le proposte di legge sui beni comuni e sull’acqua presentati da suoi componenti, da regioni o d’iniziativa popolare. Qui la presenza organizzata dei cittadini può trasformarsi non solo in pressione significativa perché di quelle proposte di legge si discuta, ma può divenire richiesta di modifiche, anche costituzionali, perché le iniziative legislative popolari vengano prese in considerazione e ai loro promotori sia riconosciuto un potere di iniziativa ed una presenza nel corso della discussione nelle commissioni parlamentari. Una connessione istituzionale importante. Certo, va evitata l’eccesso di riferimenti ai beni comini. L’inflazione non è un pericolo soltanto in economia. Si impone, quindi, un bisogno di distinzione e di chiarimento, proprio per impedire che un uso inflattivo dell’espressione la depotenzi. Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua forza. E tuttavia è cosa buona che questo continuo germogliare di ipotesi mantenga viva l’attenzione per una questione alla quale è affidato un passaggio d’epoca. Giustamente Roberto Esposito sottolinea come questa sia una via da percorrere per sottrarsi alla tirannia di quella che Walter Benjamin ha chiamato la «teologia economica».
Veniamo così agli strumenti da adoperare e progettare. Il “Manifesto” ne elenca molti: la Convenzione di Aarhus e l’esperienza di Porto Alegre, quella di Party, dell’Open Space Technology, dei Town Meetings. L’elenco può essere facilmente allungato, ma da esso escluderei i referendum on line, di cui non si sottolineerà mai abbastanza l’ambiguità , o la pericolosità , per l’ingannevole sensazione di passaggio di sovranità che può generare, mentre sono strumenti congeniali alla democrazia plebiscitaria, a alle manipolazioni, anche se proprio nella dimensione locale alcuni di questi rischi possono almeno essere ridotti. Di nuovo, comunque, siamo di fronte a un tema ineludibile, che è poi quello di come si governa la democrazia continua.
Beni comuni e democrazia continua sono indicazioni che impongono una rottura, ma sono soprattutto questioni ineludibili se si vogliono seriamente affrontare le questioni del mercato e della crisi delle procedure democratiche. E’ stata, ed è ancora, l’altra politica ad aver costruito questo pezzo di agenda, che può divenire un momento di connessione tra i due circuiti politici, se quello ufficiale, o almeno alcuni dei partiti che lo compongono, si renderanno conto che qui si gioca una partita decisiva. Che ci porta dritti alla Costituzione, al lavoro fondamento della Repubblica democratica, ai diritti come elemento costitutivo della democrazia.
Si può davvero parlare a questo punto di soggetto senza progetto, di neutralizzazione dei conflitti? O siamo proprio sul terreno dove il progetto può cominciare a prendere una nuova forma, e proprio per questo esige lavoro e contributi larghi? E le questioni prospettate ci portano nel cuore dei conflitti di oggi, nella dimensione nazionale, sovranazionale, globale. Certo, il “Manifesto”, oltre ad avere limiti, ha molte lacune. Ma apre una discussione vera, che spero possa proseguire.
Vedo tutti i rischi di una democrazia senza partiti. Vedo pure quelli di una democrazia progressivamente svuotata dal ridursi della sua capacità rappresentativa, svincolata da una cittadinanza forte.
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