Battesimo del fuoco per le forze afghane L’elogio dell’America

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WASHINGTON — I portavoce della Nato in Afghanistan dovrebbero tenere a mente quel detto sempre valido in regioni complicate: «Non sappiamo quello che non sappiamo». Appena il 10 aprile un alto ufficiale aveva dichiarato alla Reuters: «Non ci sono segnali di un’offensiva di primavera, i talebani si limitano ad azioni sporadiche contro avamposti in luoghi remoti». È evidente che rilanciava una valutazione — errata — dell’intelligence. Gli attacchi simultanei di ieri hanno dimostrato la capacità  degli insorti di arrivare «sotto il radar» per innescare scontri dal peso militare relativo ma dall’alto impatto politico. Una lunga battaglia che ha fatto emergere lati vecchi e nuovi.
È evidente che il network Haqqani continua ad essere temibile. Colpisce a Kabul ma i capi sono nascosti nell’area tribale pachistana. Come un anno fa i mujahedin hanno bersagliato gli obiettivi da edifici in costruzione trasformati prima in punti di tiro quindi in sacche di resistenza. Tanto è vero le sparatorie si sono protratte fino nel cuore della notte. Possibile che nessuno si sia accorto di quanto stava per esplodere? Gli attacchi hanno richiesto una lunga preparazione, un lavoro di ricognizione e un buon coordinamento. È necessario fare meglio per parare altri colpi. La sottovalutazione della minaccia non ha implicazioni soltanto «tecniche». Le scorrerie nella capitale sono il chiaro tentativo di enfatizzare i buchi nella sicurezza mentre la Nato passa la mano, lentamente, ai soldati del presidente Karzai. Il messaggio che i ribelli vogliono diffondere è che né l’Alleanza né le autorità  garantiscono stabilità  al Paese.
Alla sfida talebana, le fonti Nato hanno risposto «pensando positivo». E allora, a caldo, hanno sottolineato come le forze afghane abbiano fatto bene il loro lavoro, riuscendo anche a fermare due uomini-bomba. Per gli americani si tratta di «segnali di progresso». Minimi. Tra qualche giorno capiremo se davvero è andata così. Ma è evidente che Usa e alleati sono disperatamente legati all’«afghanizzazione» del conflitto. Devono crederci e scommetterci. Se le autorità  di Kabul stanno sulle loro gambe diventa più facile, si fa per dire, lasciare un Paese metà  inferno e metà  pantano. Anche la recente concessione sui raid notturni va in questa direzione. In base all’accordo sarà  Kabul a decidere se e come effettuare queste operazioni che saranno condotte unicamente dalle forze speciali locali. Gli Usa avranno solo funzione di appoggio e non potranno eseguire quelle perquisizioni nelle case responsabili di molte frizioni con i civili. 
L’idea del progetto è buona, lo è meno l’esecuzione. Nel giugno di un anno fa un commando ha occupato per ore l’Hotel Intercontinental a Kabul. La Nato ha prima lasciato fare gli afghani. Poi, per piegare la resistenza degli assalitori, è stata costretta a mobilitare le sue unità  d’elite. Karzai ha spesso rivendicato le sue prerogative di presidente arrivando, in numerose situazioni, a rimproverare aspramente gli Stati Uniti. Gesti di apparente indipendenza giustificati da episodi terribili, come la distruzione del Corano e la strage nelle case di Kandahar. Gesti che però hanno bisogno di sostanza come di coerenza. I soldati afghani devono sparare sui terroristi e non contro gli alleati. E lo stesso presidente ha l’onore di fare di più. Ieri i suoi agenti erano sotto il fuoco. Nel Parlamento assediato qualche parlamentare non ha esitato a impugnare le armi per respingere gli insorti ma di Karzai, almeno fino oltre il tramonto, non si è udita una parola.


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