Basta Sarajevo

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Può esistere una misura per l’orrore? Non credo, anche se, nel mio piccolo metro personale Sarajevo è al massimo. Può esistere una misura per l’eroismo silente nell’ostinarsi a vivere contro tutto e contro tutti? Non credo, ma sempre nel mio piccolo metro personale a Sarajevo ho conosciuto una quantità  di Eroi maiuscoli. Puoi innamorarti di un luogo coi sentimenti riservati agli esseri umani? A Sarajevo mi è accaduto. 20 anni fa ho amato perdutamente Sarajevo. Oggi, vecchio amante sopravvissuto, quel mio lontano amore, terribilmente lucido nel ricordo del suo essere assoluto, genera solo amarezza. Di fronte al piccolo presente che lei, Sarajevo, e io, reporter di guerra in disuso, possiamo assieme rappresentare oggi.
Troppi libri sulla Sarajevo eroica. Troppi eroi di passaggio a raccontarla per raccontarsi. Mai un libro su Sarajevo, fu un mio silenzioso giuramento. Perché certi ricordi, se vuoi salvarti, devi nasconderteli dentro. Come fanno loro, i silenti sopravvissuti del Vivere Impossibile. Cronaca stretta, fu allora la mia regola e la mia salvezza anche mentale. Cronaca stretta anche nella fastidiosa, insistente commemorazione che nulla può adeguatamente raccontare e dove tutto è ormai filtrato dal nostro privilegio di sopravvissuti. Quindi cronaca anche oggi, anche se costretta in un coro non sempre armonioso e intonato. Ma forse ciò è giusto, visto che nella Sarajevo dell’assedio io ho visto il meglio e il peggio che una vita d’avventura possa offrire.
Ho incontrato Sarajevo nella maniera più barbara. Autunno 1992, quando gli scontri etnici erano diventati guerra. Due auto Rai con marchingegni tecnici giganteschi. La «frontiera» serbo-bosniaca ad Ilidja, periferia della capitale, e poi la terra di nessuno. Mica spareranno a dei giornalisti? Incassammo una decina di proiettili. Il miracolo fu un solo bersaglio colpito: il braccio sinistro del nostro amico tecnico Roberto Cannaviccio. Parabrezza, proiettile deformato, colpo passante sul braccio, in entrata buco di moneta da 50 lire, in uscita una da 100. Poi la deviazione del giubbetto antiproiettile verso la scapola dove il proiettile s’è fermato in attesa di un chirurgo. Fu il benvenuto di Sarajevo.
Roberto, il ferito, lo abbiamo accudito e portato in salvo, ma la sfida con quella città  che non voleva concedersi era iniziata. Una storia durata i quattro anni dell’assedio. Nell’immagine dell’innamoramento, la luna di miele. Poi i primi anni della liberazione e della speranza, quando i difetti della convivenza iniziano ad emergere oltre l’ondata della passione. Fino al distacco reciproco, lento ma inesorabile. Lei via via sempre più irriconoscibile. Nell’aspetto e nei suoi modi d’essere. Io sempre più critico e distante da quella città  che vedevo trasformarsi sotto i miei occhi, snaturata nei suoi sentimenti, cedevole alle tentazioni dell’appartenere per meglio vivere. L’ultimo incontro tra noi, due anni fa alle elezioni. Formalizzazione di un divorzio.
Chi racconta con simpatia legittima della Sarajevo formalmente pacificata di oggi non ha conosciuto la Sarajevo in guerra che la pace sostanziale, convinta, la condivideva con le sue quattro principali identità  culturali e religiose. Per me, il fratellino serbo Boban, l’amico Stampy, musulmano, l’impareggiabile Nadira ostinata jugoslava, il croato Filipovic, lo sloveno Skerk. Eravamo una squadra. E gli amici di «Benevolentia» che dalla sinagoga distribuivano minestre e medicine a tutti. Ovviamente l’odio feroce c’era, dentro l’assedio alimentato dalla più becera ignoranza, e appena fuori dall’assedio, oltre il cimitero ebraico diventato postazione di cecchini, scalato il Trebevic, sino a Pale, capitale burletta dietro la maschera tragica dei Karazdic. 
La Sarajevo che piango e che rimpiango è stata la città  che è sopravvissuta non tanto per la sua difesa armata quanto per il carattere, l’ostinata voglia di vivere dei suoi abitanti. Il resto è folklore, o dramma, da sottrarre ai racconti autoreferenziali e da non mettere a confronto con la penna amorevole di Adriano Sofri. Ogni ricordo della Sarajevo assediata, per chi l’ha vissuta da innamorato quale io ero, è cosa intima. Silenzio da violare allora solo per la denuncia dovuta. Oggi sarebbe intromissione negli orrori rimossi, nascosti nell’angolo più buio della memoria, nella paura che possano riemergere. Quando ritrovo i rari colleghi che c’erano, scopro che tutti tendiamo a rivangare solo scemenze da osteria. La Sarajevo delle sue barzellette di guerra.
C’è ovviamente un sacco di gente di allora che non può più ridere, e di oggi che non vuole ricordare o, più fortunato, chi non sa. Per doverosa «dignità  del ceto», del mestieraccio che ho fatto, una sola citazione del passato. Due maggio del 1993. Nella Sarajevo assediata si celebra la giornata Onu dell’informazione. Uno splendido manifesto della miglior grafica di scuola jugoslava. Una serie di fili spinati ed una penna d’oca che scrivendo li taglia lasciando sotto di sé una goccia rosso sangue. Misero una lapide quel giorno, coi nomi dei giornalisti morti in quella guerra non ancora finita. La potete ancora vedere, stinta, sul lato destro di Ulica Maresciallo Tito, di fronte al fuoco perenne del modesto altare alla guerra che fece, unità  di popoli, la Jugoslavia del 1945.
Mancano tra i molti nomi su quella lapide, già  allora un centinaio, tre nomi. Italiani. Marco Lucchetta, Alessandro Ota, Dario D’Angelo. La squadra televisiva Rai della sede di Trieste che raggiunse Mostar sotto attacco. Non c’era solo Sarajevo. Lì si ammazzavano tra croati e musulmani. Prima della forzata Federazione imposta a due dei litiganti per isolare il terzo. Una granata sparata dal fronte croato, stessa sponda della Neretva da dove partiranno in seguito le cannonate che distruggeranno il secolare ponte turco della città . Era il 28 gennaio 1994. Le schegge li dilanieranno. Mestiere di merda, bestemmiai allora piangendo. Mestiere che ho continuato a fare, ostinatamente, nella speranza che la denuncia delle follie del presente servisse a costruire un futuro diverso. 
Il Natale 1995 ho visto arrivare i liberatori. I bersaglieri della «Garibaldi» proprio a Sarajevo, col loro pennacchio buffo sull’elmetto. Sarò retorico ma mi commossi come credo fu per mia madre e mio padre il veder sfilare le brigate partigiane il 24 aprile del ’45 a Genova. Per un po’ mi illusi e fui narratore benevolo di una pace difficile da costruire sui corpi ancora caldi di 100 mila vittime e di milioni forse di profughi. Poi la regola impietosa della notizia che mangia notizia. Sarajevo fu affidata ai pacificatori internazionali senza occhi esterni a vigilare. E, anni dopo, occasione rara tra tante guerre balcaniche succedute a quella, via via mi accorsi che mi avevano rubato la Sarajevo del mio amore maturo, consapevole, deciso e irriducibile. Fu lacerante.
Scoprii lo stupro morale che si stava perpetrando gradualmente. Via via che i contrapposti nazionalismi di appartenenza portavano a compimento la pulizia etnica interna che non era riuscita alla guerra. Meretricio morale. Fu meno cruento, certamente, ma fu uno scempio perpetrato sotto gli occhi disattenti o complici della cosiddetta «Comunità  internazionale». Odio e disprezzo da allora le «Missioni internazionali», siano esse di finta pace o meno ipocritamente di interposizione fra parti in guerra. La guerra, imparai più avanti in Iraq e Afghanistan è cosa facile da fare. È la pace che non sappiamo costruire. La Sarajevo multietnica, cosmopolita, laica, era morta assieme a tanti miei amici. 20 anni dopo piango la Sarajevo della purezza ideale condivisa e persa.


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