Arrivederci, Miss Liberty
Gli Stati Uniti stanno «marcendo dal di dentro» arriva a scrivere la serissima rivista Foreign Policy, ed è insieme una metafora e una realtà , perché migliaia di chilometri del sistema fognario sono fradici, andrebbero rifatti, come andrebbero sistemati i diecimila ponti e ponticelli che ogni tanto collassano, risucchiando treni. Non ci sono i soldi, forse nemmeno la voglia, per ricostruire. E nella nebbia del «declinismo» che avvolge una nazione dove due persone su tre non credono più a un futuro migliore per i propri figli, da sempre il vero carburante del “sogno americano”, si respira un’aria già quasi nostalgica.
(segue nelle pagine successive) (segue dalla copertina) e la ricordate la vecchia America, la promessa scritta ai piedi di Miss Liberty – “datemi i vostri stanchi poveri, le vostre masse oppresse…” – la porta delle lacrime che milioni attraversavano sbarcando a Ellis Island, il West, la Luna, la terra delle opportunità illimitate, la Frontiera, Frank Sinatra che canta Chicago? Sembra che non ci sia più. La storia ricomincia, come sempre fa, ma non più dall’America.
Viene la tentazione di usare tempi passati per i verbi, raccontando la favola amara del declino. Nel paese che aveva inventato il ponte come simbolo di futuro, il Brooklyn Bridge, il Golden Gate,i ponti cominciavanoa cigolare e ad arrugginire in quel lontano 2012. La galoppata dell’immigrazione legale e illegale si era ridotta un trotto, le corse pazze sull’autostrada numero 5, tra le auto in fila alla frontiera di Tijuana, per raggiungere El Norte, erano quasi scomparse. E quando anche i morti di fame cominciano a non essere più disposti a rischiare la vita per raccogliere la tua lattuga, è un brutto segno. I poveri non hanno niente, se non il fiuto della fame.
Dissero che le luci avevano cominciato a spegnersi poco dopo l’attacco alle Torri Gemelle che fu il supremo, demenziale riconoscimento della supremazia totale americana. Si spalancò allora una voragine di allucinazioni militari e ideologiche, di panico, di sangue sparso per vendicare sangue, e di denaro, nel quale affondarono le mani gli sciacalli della finanza, costruendo immensi castelli di carta tossica, invece di ponti, dighe, strade, aeroporti, scuole, ospedali pubblici, ferrovie nuove. Un decennio più tardi, ogni americano, neonato o vegliardo, aveva, in quel 2012, cinquantunomila dollari c o m e p r o p r i a quota dello sconfinato debito nazionale di sedicimila miliardi, il doppio degli europei. Il Grand Canyon creato fra il reddito dei ricchi e dei non ricchi si era allargato fino a trecento volte, spingendo per le strade vecchi professionisti dell’apocalissi come Noam Chomsky e giovani indignati a chiedere di « Occupy» i templi dei cambiavalute. Ma non era la distanza nel reddito a muoverli, intuì una rivista da ricchi, Forbes, era qualcosa di molto più grave e di molto non americano: era la fine della speranza di poter scavalcare il canyon e diventare, a loro volta, ricchi.
Talmente ansioso, e inquieto, è il governo della nazione che, pur in tempi di risparmi e tagli, trova quasi mezzo milione di dollari, con la benedizione del Presidente, per studiare quanto felice sia il popolo, ricordando quello straordinario dettato costituzionale che dà a tutti il «diritto alla ricerca della felicità ». Ne uscirà un nuovo Indice nazionale ufficiale, non più soltanto il Pil, il Prodotto interno lordo, ma la Fil, la Felicità interna lorda, tenendo le dita incrociate. In un tentativo di misurazione del morale collettivo, nel 2011, Gallup aveva classificato gli Stati Uniti al dodicesimo posto nel mondo, dopo molte nazioni europee (non l’Italia) e persino dopo Panama, ex colonia di fatto. Per vendere automobili fatte in casa, i pubblicitari si erano dovuti inventare un slogan astuto e triste: Comperate Chrysler, auto ” Imported from Detroit “, come se Detroit dovesse sembrare in Cina o in India, per tornare a piacere.
In un sintomo infallibile dei tramonti imperiali, mentre tutti accusavano tutti gli altri di essere i responsabili del tramonto e di avere tradito, spuntavano predicatori allucinati e millenaristi con preoccupanti nomi mistici, come quel Rick Santorum, che prometteva la salvezza nazionale soltanto attraverso la palingenesi morale della Sodoma e Gomorra americana e il ritorno al Santo Sepolcro – come «lo santo monaco pazzo» di una colossale Armata Brancaleone. Milioni lo seguivano. In nessun altra nazione, le panzane millenaristiche sulla fine del mondo nel 2012 avevano attecchito come in America.
Aspettate un momento, invocavano persone sensate come Thomas Friedman, che conosce il resto del mondo, o come Robert Kagan, brillante neocon riesumato dagli errori della sua scuola per avvertire che il mondo è ancora quello che l’America ha fatto. E che l’economia americana rimane, da sola, il 27 per cento di quella mondiale, poco meno del picco del 28 raggiunto nel 1969, quando ancora in Cina mangiavano minestrine di miglio e in Urss facevano la fila per la verza. In tutte le graduatorie internazionali delle università , otto delle dieci migliori sono ancora americane, insidiate solo da Cambridge e Oxford. La folla di studenti universitari stranieri che contribuiscono con due miliardi e mezzo di dollari all’economia, non è mai stata così ampia: ottocentomila. E se la fiaccola di Miss Liberty sembra più una brace che un faro, quasi trenta milioni di turisti, un record, affrontano il calvario degli aeroporti per andare a vedere l’impero al tramonto.
Lo sciamano che in un altro millennio racconterà attorno al fuoco la favola dell’America scomparsa dovrà probabilmente cambiare la formula classica del “c’era una volta l’America” in un “c’era stata molte volte l’America”. Perché questa Atlantide data sempre per sprofondata, dalla ribellione all’impero britannico fino all’abisso dei debiti, non finiva mai. Ci sarà ancora una volta l’America, racconterà , scuotendo la testa perplesso, lo sciamano.
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