L’Aquila Tre anni dopo Donne che (r)esistono

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Arrivando dall’autostrada, L’Aquila la vedi bene. Il centro storico, la periferia e intorno le montagne. Il cratere è un paesaggio potente e struggente. Dall’autostrada ti sembra tutto normale. Poi ti chiedi: come mai all’autogrill c’è tutta questa gente che non ha l’aria di essere di passaggio? E avvicinandoti al centro ti accorgi che L’Aquila non c’è più. Quando entri, l’entusiasmo della bellezza è sopraffatto dal silenzio dell’abbandono. Siamo partite da qui per realizzare un progetto, «Le (r)esistenti», il docu web da oggi sulla «27ora», decise a segnare un anno della nascita del blog con qualcosa che ci rappresentasse. E le donne dell’Aquila rappresentano la capacità  di fare rete, di stare in equilibrio tra impegno difficoltà  e leggerezza, di essere presenti nella vita sociale, nonostante tutto. In una città  di 70 mila abitanti più di 9 mila si sono arrangiati in «autonoma sistemazione», oltre 20 mila sono in 19 New Town e 3 mila sono spariti dall’anagrafe. Con la voce delle donne si coglie quella di un’intera società .

Non ho 30 anni e mi Sento una Giovane Vecchia
«I l sisma mi ha tolto i sogni. Ora sono una giovane vecchia. Ricostruirò la mia casa e il mio futuro mattone su mattone». Agnese è arrivata all’appuntamento con il terremoto già  toccata da numerose prove. Il terremoto è stato un colpo per tutti, per Agnese di più. Lo si capisce mentre racconta fumando, la sigaretta come un muro dietro cui nascondere la tensione. «Il vero crollo l’ho avuto nei giorni successivi. Per tre giorni e tre notti non sono riuscita a dormire. Poi ho preso carta e penna, ho messo nero su bianco il racconto di quei minuti. E finalmente mi sono addormentata». Oggi Agnese è una donna, viso di ragazzina, ma molto più vecchia dei suoi 27 anni. Agnese è tornata a vivere il presente. A pianificare il futuro. «Sto seguendo un progetto europeo per l’integrazione degli extracomunitari. Poi, insieme a un gruppo di amici stiamo organizzando una fiera per la promozione dei prodotti tipici del nostro territorio. L’obiettivo è quello di metterci in proprio. Ho deciso di restare a L’Aquila. Qui ci sono i miei amici, mia madre, le mie radici. Riparto da qui».

Mia Figlia Nata Poche ore Prima del Disastro
«Agnese ha spinto il terremoto più in là ». Stefania sorride e ti guarda come per convincerti della sua verità : che il terremoto può non essere uguale per tutti. Perché se hai una bimba di un giorno tra le braccia, anche quei calcinacci, quelle urla, quel sangue, possono essere lasciati alle spalle. Per Stefania è stato così. La sua Agnese oggi compie 3 anni: è nata il giorno prima del disastro. E da quell’alba in cui la terra ha tremato è riuscita a spingere la sua mamma oltre la tragedia. L’ha spinta a non piangersi addosso, a vivere una vita che non era più la stessa. Ma che era comunque una vita. Agnese è una bimba del terremoto. Stefania una mamma del terremoto. Insieme, rappresentano le tante famiglie che, a L’Aquila, si sono trovate a gestire un quotidiano malinconico. «Essere mamma in una città  che non esiste più è una situazione a cui nessuno può essere preparato». Per Stefania adesso la cosa più importante è dare un’infanzia serena a Agnese. E a tanti altri bambini che non hanno più luoghi dove incontrarsi. Con un’amica ha aperto una ludoteca. Per non arrendersi alla logica del centro commerciale che sta conquistando tutti: «Non potevo accettare che, mentre io avevo giocato nelle piazze del centro, con l’acqua delle nostre fontane, con gli alberi dei nostri parchi, Agnese avrebbe dovuto correre sotto i neon di un negozio. I nostri bambini hanno diritto ai ricordi. Quelli il terremoto non li porterà  via. Bisogna solo combattere. In fondo non è difficile».

Vivere nella new town che Ridiventa un Paese
Graziella continua ad andare, ogni mercoledì, all’assemblea cittadina che si riunisce sotto il tendone in piazza Duomo, dietro la scritta RICOSTRUIAMOLA. Va, anche se «ormai son quattro gatti». Graziella sfodera il suo piglio deciso. Un militare ci ferma. «Di lì non si può», intima indicando quel mondo che sta alle spalle della Cattedrale malconcia. Graziella lo guarda. «Tu non m’hai vista, dai». Lui incerto, borbotta: «Non si può, è pericoloso». Noi passiamo. «Ho diritto di andare a vedere. È la mia città ». Il giro finisce davanti alla sua vecchia casa, nel quartiere di Pettino. «Io la odio, quando ci entro mi fa arrabbiare. È crollata, mi ha tradito». Ora vive, con marito e un figlio, in un appartamento delle new town. «Mi trovi alla prima piastra», dice. Alle C.a.s.e. di Sassa non usano nomi di vie o numeri civici: le piastre sono basi di cemento armato, sopraelevate, che dovrebbero resistere a sismi estremi». «Non ho mai vissuto in un condominio. Qui tutti dicono “le new town sono luoghi senz’anima”, dei dormitori. Mi son detta, organizziamoci. In questo insediamento vivono 1.500 persone, allora ricreiamo la situazione di un paese, una comunità  che discute, progetta, propone… quello che non succedeva neanche prima del terremoto».

Ho Ripreso a Vivere ma non riesco a Cucinare
«Sono nata il 6 aprile 2009. Vivere all’Aquila oggi è una gestazione, bisogna averne cura come di una nuova creatura», dice Chiara Rossi. Avvocato, ragazza di buona famiglia, Chiara viveva tra l’Aquila e il mondo. Ora la città  occupa i suoi pensieri, e Chiara non parte più. Adesso è impegnata in un progetto per la tutela del Borgo della Rivera, dove abita. «Si può amare una città  come si ama un uomo». E questo amore, Chiara Rossi lo racconta accoccolata sulla panchina dove viene a leggere il giornale, di fronte alla fontana delle 99 cannelle. Chiara è tornata nel Borgo a fine settembre 2010 dopo un’«emigrazione forzata» lontana dall’Aquila: «Ero come un vegetale, non mangiavo e non dormivo, avevo come un’inquietudine». Ma quando le hanno riconsegnato la casa, l’ha subito abitata anche se non c’era riscaldamento. E l’inverno del 2010 è stato parecchio freddo. «Ricordo le serate di nuovo con gli amici, ci si rivedeva intorno alla stufa dopo tanto». Ora Chiara si è riappropriata di quasi tutte le abitudini, solo una manca all’appello: lei che era brava in cucina, ha congelato questa sua abilità . «Non riesco più ad avvicinarmi ai fornelli», racconta con stupefatto dolore. La vulgata vuole che la cucina sia un rifugio e una consolazione al dolore, ma l’elaborazione del lutto non parla una sola lingua e si manifesta in modi diversi.

Vedendo un Uccellino nel Nido ho Pianto
«Mi piacerebbe pensare che la città  è stata potata». Fa uno strano effetto, fa venire in mente una forbice celeste e ingiusta che taglia i tetti delle case, i campanili, le terrazze e i balconi, la memoria delle persone. Poi l’immagine diventa accettabile: «Potata, perché si possano rafforzare le radici». Anna Tellini pensa così a quello che è successo a L’Aquila: niente potrà  bonificare i giorni della calamità ; ma si può cercare di resistere, spingendo le proprie radici un poco più giù nella terra. Docente di Letteratura russa, madre di un figlio ventenne e giocatrice di burraco. Anna racconta di sé e sembra che si stia muovendo su una mappa dove ha segnato i luoghi delle sue «riserve». C’è l’università : l’attesa della nuova sede che permetterà  presto a studenti e a professori di abbandonare i brutti capannoni inospitali dove hanno fatto lezione fino a oggi. Ci sono gli scrittori russi: «Mi hanno insegnato che si può ripiombare in un’esistenza preistorica senza perdere se stessi». C’è la sua casa, «che ha persino un piccolo giardino». E nel giardino c’è un albero, e sull’albero un nido, e sul nido un uccellino arrivato dopo mesi di dolore senza lacrime. «Mi ha commosso profondamente, c’era questa cosa che io a lungo non riuscivo a piangere».

Il Rientro in Montagna a Fare a Mano la Pasta
Dopo il terremoto, nonna Aida (86 anni) ha lasciato la casa del centro in cui aveva vissuto per 25 anni per tornare con la figlia Amalia nella casa di montagna della giovinezza, a Santo Stefano di Sessanio, 2.500 metri sul mare. Anche qui il terremoto ha portato distruzione. «La mia casetta è rimasta in piedi perché attaccata alla roccia», spiega. Qui ha ricominciato a fare le cose semplici, ad «ammassare», come dice lei. Tira la sfoglia a mano con il mattarello. E così Aida impasta la sua filosofia di vita: «Mi fa male un braccio, ma non mi arrendo. Ora ci mettiamo un goccio d’olio…». A Santo Stefano di Sessanio, Aida e Amalia si alzavano alle 6 per preparare la colazione agli uomini della Protezione civile e agli operai: «Facevamo dolci, ci scambiavamo ricette». «Certo, il mio luogo del cuore resta la casa dell’Aquila», dice. «Per un mese sono rimasta a guardare la televisione. Non mi alzavo più. Sono state le miei nipoti Cecilia e Margherita e Aida a farmi reagire. “Nonna guarda che commetti peccato. Noi siamo fortunati perché siamo tutti vivi”. Ho capito che avevano ragione».


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