by Editore | 31 Marzo 2012 2:55
Perché lei, Slavoj Zizek, si interessa tanto alla psicoanalisi? «Per un solo, unico motivo! Arrivare a una nuova comprensione di Hegel. Questo è il vero nucleo del mio lavoro: il mio maniacale entusiasmo per Hegel. Ho appena scritto un libro su Hegel, lo stanno stampando ora, uscirà in inglese tra circa tre mesi. È una roba da matti, più di mille pagine su Hegel».
In un suo libro, afferma che il comunismo rappresenta l’unica via d’uscita dall’attuale crisi sociale…
«Davvero ho detto questo?».
In che senso il comunismo è la soluzione?
«Okay, ecco la mia posizione ufficiale a riguardo. Innanzitutto, so di avere un piccolo problema di pubbliche relazioni. Molti miei amici, ma anche persone con cui non ho rapporti di amicizia, mi chiedono: perché non lasci finalmente perdere questo stupido concetto di comunismo, che porta con sé così tante implicazioni infelici?».
E perché non lo fa?
«Posso darvi tre motivazioni. Da buon freudiano, so che quando si danno troppe motivazioni ci si rende subito sospetti (ride). Primo: vorrei sottolineare che, nonostante tutto, esiste una ben definita tradizione del comunismo che non ha proprio nulla a che fare con lo stalinismo. Ad esempio la linea radicale ed emancipativa rappresentata dal millenarismo, con la sua credenza nella fine dei tempi. Il regno eterno è qui! È possibile trovarla nel cristianesimo, nella rivolta spartachista, nella guerra dei contadini e così via. Ritengo questa tradizione molto importante, mi piacerebbe portarla avanti».
E la seconda motivazione?
«Il problema di tutti gli altri concetti, ad eccezione del comunismo, è che sono compromessi nel senso esattamente opposto: sono troppo leggeri da digerire. Prendiamo il concetto di “solidarietà “. Perfino Hitler avrebbe potuto parlare di solidarietà . O “dignità ” – ma è chiaro, tutto dipende da cosa intendiamo per “dignità “. Vedete, la parola comunismo almeno è destabilizzante: fa capire che non stiamo qui a prenderci in giro, a parlare di concetti onorati e vuoti, come quello di “maggiore giustizia”».
E la terza ragione?
«Forse è addirittura un bene che questo concetto sia gravato da una storia così spaventosa. Essa ci ricorda che progetti di una tale portata pratica sono sempre intrisi di pericolo. (…) Ma la mia vera risposta, quella definitiva, è: la parola “comunismo”, come sottolineo più volte nel mio libro, non è il nome della soluzione, bensì quello del problema».
Di quale problema?
«Se si esaminano le questioni di fronte a cui ci troviamo oggi – l’inquinamento dell’ambiente, il capitalismo finanziario, la biogenetica, la difesa della proprietà intellettuale – tutti questi sono “problemi del vivere insieme, in comune”: riguardano un ambito che sfugge sia al controllo dello Stato che alle soluzioni pensabili nell’ambito privatistico dell’economia di mercato. Il concetto di “comunismo” (dal latino communis) per me, quindi, identifica il problema. (…)».
Parliamo del movimento Occupy Wall Street. Secondo lei contribuisce, sia pure per piccoli passi, a cambiare le cose, o invece è parte del problema?
«Chi vivrà vedrà , sono molto cauto. La mia opinione su Occupy Wall Street però è la seguente: l’esistenza di esso è significativa, dato che si tratta del primo movimento, negli Stati Uniti, che è riuscito a ottenere una vasta eco sociale e non si occupa di un unico tema, ad esempio solo di razzismo o solo dell’indebitamento creato da speculazioni finanziarie. La gente si è accorta che c’è qualcosa che non va nel sistema. Ma non mi piace la formula “è colpa del capitale finanziario”».
Perché no?
«Il problema è in realtà : qual è la logica alla base dell’odierno sistema capitalistico che permette al capitale finanziario di agire così? Si tratta di una coazione sistemica. I banchieri sono cattivi da sempre – che strano, eh? Non bisogna dare la colpa solo ai banchieri di oggi! È un’idiozia! E penso che l’errore più grave che si possa commettere sia moralizzare questa crisi» (…).
Lei affermerebbe che la nostra attuale forma di democrazia non è in grado di combattere il capitalismo?
«No, no, no, direi quasi il contrario! Certo, la libertà di cui disponiamo è solo formale – ma questo è comunque l’unico ambito in cui la libertà può esistere. Nel momento in cui si abolisce la democrazia formale, non si ottiene la vera democrazia. Piuttosto, si perde la democrazia in quanto tale. Il solo spazio di libertà che abbiamo si trova nel campo intermedio tra la democrazia formale e le forme effettive della nostra illibertà … Si deve cominciare a pensare la politica al di là delle ristrette definizioni proprie dello Stato multipartitico. Voglio dirlo in questi termini: io odio il Sessantotto. Troppa libertà , troppo divertimento. Ma almeno una cosa l’hanno capita: il personale è politico e tutta quella roba là . Non sono cose che vadano sopravvalutate, sia ben chiaro, ma naturalmente sono giuste: l’oppressione delle donne, le strutture famigliari, quello che succede nelle fabbriche… anche in questi ambiti si pongono questioni di libertà , di politica. E qui, a mio parere, si innesta il problema più serio: non si dovrebbe far fuori la democrazia formale. Però, allo stesso tempo, come fare a includere questi ambiti nel processo politico?».
Traduzione di Eleonora Piromalli
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