Wen: senza riforme politiche torna la Rivoluzione culturale

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HONG KONG Se un analista politico dicesse che la Cina è a rischio di una «seconda Rivoluzione Culturale» di certo sarebbe preso per allarmista, poco informato della realtà  del Paese, ormai modificata in modo perenne da 30 anni di riforme economiche. Ma se a dirlo è Wen Jiabao, nel discorso di chiusura dell’ultima Assemblea Nazionale del Popolo che lo vede primo ministro in carica? La Rivoluzione Culturale, lanciata da Mao Zedong nel 1966 e durata per dieci anni, rimane un argomento parzialmente tabù, dato che lo stesso partito politico che la scatenò è tutt’ora al potere.
Nel rivolgersi ai giornalisti cinesi ed internazionali ieri, alla chiusura del principale esercizio politico e legislativo annuale nazionale, in una conferenza stampa teletrasmessa al Paese, Wen però non ha lesinato le parole inquietanti, affermando con più decisione che mai che la Cina ha bisogno urgente di riforme politiche, in mancanza delle quali, per l’appunto, una nuova Rivoluzione Culturale non può essere esclusa. «Senza portare avanti le riforme politiche strutturali, è impossibile riuscire a costruire davvero le riforme economiche in modo strutturale, e quanto abbiamo guadagnato finora in questo campo potrebbe andare perduto», ha detto Wen, ed è inevitabile che il suo discorso sia stato visto come un attacco frontale alle fazioni maggiormente conservatrici del partito comunista cinese, impegnate in una lotta dietro le quinte per aggiudicarsi una sostanziale fetta di potere di qui a ottobre, quando verrà  nominato il nuovo Politburo che governerà  la Cina per i prossimi dieci anni.
Dietro al riferimento diretto all’epoca di Mao potrebbe esserci dunque un rifiuto delle politiche di Bo Xilai, il segretario di partito della municipalità  di Chongqing, uno dei leader provinciali più noti e discussi per l’aver promosso una bizzarra «campagna rossa» che ha ridato attualità  alle canzoni dell’epoca della Rivoluzione Culturale, ai suoi slogan incessanti, e a parte della sua iconografia grondante bandiere rosse, ufficialmente per cercare di ridare un senso di moralità  politica al Paese. Proprio il mese scorso però la stella di Bo Xilai è sembrata spegnersi, dopo una misteriosa fuga verso il consolato americano del suo numero 2, il capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, attualmente detenuto. Lo stesso Bo sembra essere sopravvissuto allo scandalo, e il discorso pro-riforme di Wen probabilmente va letto in questo contesto. Congetture, ancora una volta, dato che malgrado un’apparenza più moderna, i meccanismi di funzionamento interni al Partito comunista cinese restano opachi e di difficile lettura.
Nel discorso di ieri Wen ha enfatizzato il bisogno di riforme politiche, non per la prima volta, ma è inevitabile notare come, nei dieci anni in cui è stato il Primo ministro, non abbia voluto, o potuto, portare avanti nessuna riforma significativa. Una volta di più, ha evitato di proporre misure concrete: davanti a un giornalista che chiedeva se ci saranno elezioni in Cina, ha risposto che queste stanno venendo introdotte in modo graduale, partendo dai villaggi nelle campagne, senza specificare però che questa riforma è in piedi dagli Anni Ottanta, e non ha fatto finora alcun progresso.
Poi, ancora una volta fedele all’immagine populista coltivata negli anni, Wen ha ribadito l’importanza di avere una società  più equa, confermando una crescita dell’economia più lenta per l’anno in corso (+7,5%, secondo le previsioni), ma assicurando che il calo verrà  controbilanciato dal diminuire dell’inflazione. Gli interrogativi rispetto alla prossima direzione politica della Cina rimangono, ma rispetto al proprio operato Wen ha solo detto che «sarà  la storia a giudicare».


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