Vite da live show: impigliati nella rete
All’origine dello spettacolo itinerante dal vivo c’è stato il Cantagiro. David Zard si accordò con il patron Ezio Radaelli per portare in Italia Aretha Franklin e i Led Zeppelin al Vigorelli di Milano. Nasceva l’idea che il tour di una star della musica fosse una parte dell’entertainment di massa che oggi si è organizzato in un’impresa a rete su scala globale.
In pochi anni, una generazione che ballava in platea capì che quello poteva essere il lavoro più duro e più bello del mondo, prima improvvisando, poi organizzandosi in cooperative o società , che si muovono quando c’è un concerto, una convention, una fiera o una festa popolare, le manifestazioni di sindacati o partiti, i tour di Madonna, Notre Dame de Paris di Cocciante, Vasco e Ligabue che riempiono palazzetti, stadi e ex aeroporti.
Un’economia dell’evento che non sta mai ferma, in estate come in inverno, all’aperto o al chiuso, con un giro d’affari da 5 miliardi di euro all’anno. Una macchina che è stata messa seriamente in discussione dopo gli incidenti dove hanno perso la vita Francesco Pinna a Trieste allestendo il palco di Jovanotti e Matteo Armellini a Reggio Calabria, sul palco di Laura Pausini.
Bruno Emiliozzi, 56 anni, direttore di produzione (dei Pooh, o di Springsteen quando sbarca in Italia), una vita da nomade specializzata nel trasporto e nell’allestimento di una tournée, in Italia o all’estero, è uno di quelli che hanno fatto la storia di questo mestiere. Ha iniziato con il tour di Alan Sorrenti «Figli delle stelle», nel 1979. Era la stagione del Banco del mutuo soccorso, Premiata Forneria Marconi, i capelli da fauno di Branduardi. Anni senza fax, senza cellulare e mail, tanti gettoni telefonici, grinta, amore.
Nomadi operai
«Io mi ero specializzato nello sfasciare tutte le cucine quando non si mangiava bene, o come si doveva – ricorda Emiliozzi – Metodi bruschi, ma efficaci, oggi per fortuna le cose sono molto migliorate, c’è lo sleeper (il camion dove i tecnici possono dormire, ndr), il catering, le leggi sulla sicurezza. Il problema però sono i tempi, gli artisti e le varie agenzie – continua Emiliozzi – Le agenzie prendono per il collo i service che a loro volta strozzano i tecnici o le piccole società di servizi locali. Un rigger parte da Milano, va a Verona monta non sa nemmeno lui cosa, finito parte e va a smontare la notte a Bologna. Ti succhiano, sapendo che a te piace questo lavoro, tra virgolette libero senza tanti obblighi formali. Allora vai con spettacoli abnormi senza tempi giusti senza doppie squadre con orari di 18-20 ore al giorno. E che cazzo! Basta che gli artisti chiedessero meno soldi, si informassero di più di cosa succede intorno a loro. Se prendono 50mila in meno, non credo che non riescano a pagare l’affitto». Succede che, come nelle imprese post-fordiste che funzionano con il sistema che Max Weber definì «sub-fornitura accomandataria», basata cioè sugli appalti e subappalti, molto simile all’impresa edile, le grandi produzioni nascono per realizzare enormi incassi nel più breve tempo possibile. L’«evento» viene organizzato da una grande agenzia, ad esempio la «Milano concerti-A Live Nation Company», uno spin-off del gigante americano che produce 20 mila show all’anno con 2 mila artisti. Si tratta di un conglomerato che nel 2010 si è fuso con Ticketmaster, una delle cinque compagnie mondiali specializzate nella vendita di biglietti online (26 milioni nel 2011). Nel gruppo c’è anche Front Line, un’azienda di management che rappresenta oltre 200 artisti. Sull’esempio della casa madre, Live Nation Italia diretta da Roberto De Luca si è già fusa nel 2001 con la Trident di Maurizio Salvadori, oggi organizza i tour mondiali di Eros Ramazzotti, lavora con gli Articolo 31, Ligabue o Franco Battiato. Queste aziende hanno una partnership con la Ticket One, monopolista italiano della vendita dei biglietti online. Quando parte un tour, il vertice della piramide mobilita una rete di promoter locali che acquistano uno o più date. In questo pacchetto c’è sia lo spettacolo che il lavoro dei tecnici messo a disposizione dai service che si occupano delle luci, delle strutture, della logistica. I promoter mettono invece a disposizione i facchini. Le squadre che lavorano nei cantieri sono composte dal personale pagato dalla produzione e da quello dei promoter locali.
Gli intermediari
Uno dei casi più conosciuti tra i service è quello della romana LimeLite, specializzata nelle luci dal 1991, fondata Giancarlo Campora, Piero Guidoni e Massimo Gasbarro. Nel tempo, questo service ha differenziato le attività e si occupa dalla costruzione dei palchi, ma anche dell’allestimento dei convegni in Italia e all’estero. Impiega circa 60 persone nella falegnameria, nella fabbreria, poi ci sono i tecnici addetti all’audio o al video.
«I nostri clienti sono intermediari, come Live Nation. Lavoriamo con agenzie che vendono un’idea o un prodotto e sono in contatto con il cliente finale, cioè la società di un artista – spiega Stefano Cisaria, direttore di produzione LimeLite – il nostro staff mette il materiale e la specializzazione». Con l’ampiamento delle attività , LimeLite (e di altre aziende simili) ha partorito una cooperativa, la HiLite, che assume a tempo a seconda della domanda e garantisce la copertura assicurativa ai freelance (rigger, scaffolder, climber, tecnici audio e video, macchinisti e facchini). «La storia di questo mestiere è recentissima – continua Cisaria – questo mondo è sempre stato così, si lavora di notte, si smonta e si rimonta altrove. Oggi tutto è più grande, ma questo corrisponde ad una normale evoluzione lavorativa e tecnologica. Rispetto alle strutture fatiscenti che esistevano prima, c’è uno studio che le ha migliorate, sono maturate professionalità come i tecnici appenditori delle luci (i rigger), i light designer o i tecnici audio o video. Rispetto a vent’anni fa, oggi siamo più protetti».
L’introduzione del testo unico sulla sicurezza sul lavoro del 2007 e il Durc nel 2008 hanno in effetti cambiato qualcosa. Ma per sua natura l’economia dell’evento è esposta ad ogni imprevisto, sia che lavori all’aperto che al chiuso. Espandendosi, aumentano le probabilità di tragedie come quella di Trieste e Reggio Calabria, anche perché coinvolge una fase complessa di pre-produzione che sfugge ai lavoratori: dall’ideazione delle strutture, ai calcoli dei carichi sospesi (illuminazione e amplificazione), fino alla meccanica. Per costruire un palco ci vogliono ingegneri, architetti, allestitori, scenografi, e poi vigili del fuoco, le commissioni di vigilanza che verificano la sicurezza degli impianti. Una falla a monte, anche la più piccola, in questo sistema di intermediazione, può produrre una valanga a valle. Una carenza nella sicurezza sul posto può rovinare il lavoro di mesi fatto in cima alla piramide. E spesso le filiere sono troppo lunghe per garantire la certezza di un controllo. Come in altri settori dell’economia dell’evento, anche nel live-show il lavoro è sempre più multi-scalare e a fisarmonica. È concentrato nelle grandi città , produce migliaia di occasioni di lavoro parcellizzate, dalla ponteggiatura all’allestimento, fino alla costruzione di strutture dei concerti ormai simili all’industria pesante. La forza lavoro è distinguibile tra un nucleo ristretto, e ultra-specializzato di tecnici e professionisti stabili (un rigger può arrivare a guadagnare tra i 250 e i 350 euro lordi al giorno), e una forza lavoro occasionale, non solo italiana, altamente flessibile (uno «stage hand», un facchino, ne guadagna in media 6).
La filiera lunga
Un altro dei problemi è la liquidità e i ritardi dei pagamenti, che rendono questa economia altamente instabile. Ne sa qualcosa Sergio Santangelo, 52 anni, da tutti conosciuto come «Sergione» (i suoi «ragazzi» vengono chiamati «sergioni») che guida dal 1988 la società di facchinaggio Harley Rock Crew di Roma. All’entrata del suo trivani al Quadraro, dove vive e lavora insieme a due collaboratrici, espone un tazebao dove sono elencati 750 mila euro di arretrati che aspetta. Ci tiene però a dire che lui è uno dei pochi ad essere in regola con i pagamenti: «Li anticipo di tasca mia». La Harley Rock Crew è un’azienda a conduzione familiare che impiega 54 persone: «Sono tutti in regola per la sicurezza e la formazione di centinaia di ragazzi ho speso 103 mila euro». Matteo Armellini ha iniziato a lavorare qui nel 2000, prima come facchino, poi si è specializzato come rigger.
I corsi certificati per il primo soccorso, per mulettisti e funi, sono alcuni dei modi usati per difendere il valore della specializzazione e per creare fiducia nei committenti, in un mondo dove invece ci sono cooperative, società di multiservizi, associazioni culturali e persino i comuni che ricorrono a manodopera dequalificata nelle catene che dai sub appalti arrivano ai sub-sub appalti. Non è raro scoprire in un cantiere lavoratori regolari accanto a quelli in nero. È accaduto a Caserta prima di un concerto della Pausini. La Finanza ha scoperto 16 irregolari, anche se poi, con qualche difficoltà , gli inquirenti hanno accertato che si trattava di «prestazioni autonome occasionali». La cantante romagnola ha preteso pubblicamente che l’organizzatore del tour (Friends&Partners) controllasse le cooperative locali subappaltatrici.
Sergione è uno degli «imprenditori-lavoratori», così si definisce, che svolge il ruolo di interfaccia tra la filiera dell’evento e il lavoratore, 24 ore su 24: «Mi sono rovinato la vita e la famiglia», ripete spesso. L’identificazione con la sua azienda è totale. Si dice che abbia tre pistole. «È vero, ho il porto d’armi, perché non si sa mai. Non ci credi?». Si alza, apre la cassaforte e ne mostra una sfilandola dalla custodia. Dopo la morte di Francesco Pinna un anonimo ha sostenuto in un’intervista che la droga viene usata durante il lavoro. «È falso – si indigna – io le droghe le vieto, faccio firmare un foglio in cui chiedo a tutti di assumersi la responsabilità di non usarle». A Sergione non è piaciuto il volantinaggio che gli operai romani dello spettacolo hanno organizzato davanti al suo ufficio, chiedevano diritti e tutele per una «categoria di lavoratori che non esiste» e concludevano: «Noi operai non facciamo parte della famiglia». «Io non parlo male della produzione, e ho iniziato da operaio come loro – afferma – Non stiamo a fare la lotta di classe, siamo tutti uguali». «È vero – ammette alla fine – c’è un vuoto normativo, chi fa questo mestiere non è nè carne nè pesce, non è un facchino d’albergo, nè un pontarolo, ma è un professionista. Che vogliono fare, una categoria sindacale? Ci pensavo anch’io vent’anni fa, ma poi mi sono messo a lavorare e ho lasciato perdere. Bisogna però capire che con un contratto di categoria i soldi che ricevono saranno molto meno, tra tasse e contributi. Lo facessero, ma allora, oltre a chiedere diritti, dovranno accettare i doveri».
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