VIAGGIO IN GIAPPONE: PERCHà‰ HO DECISO DI TORNARE NEL PAESE CHE MI HA SALVATA

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Dal 28 marzo al 5 aprile sarò in Giappone. Non ci ho più messo piede dal dicembre del 1996. Dire che quel paese mi è mancato è poco. Ho creduto a lungo di essere giapponese. Ho finito per capire che quello che mi aveva formata non era il Giappone ma la mancanza del Giappone.
La prima volta che ho lasciato l’Arcipelago avevo 5 anni. Mi strappavano a Nishio-san, la mia tata giapponese che amavo quanto amavo mia madre. Gli anni che hanno seguito questo esilio ho sofferto in modo inenarrabile. Quando il mio dolore era troppo insopportabile, mi nascondevo sotto il tavolo a piangere in silenzio. Chiudevo sempre con questo giuramento: «Un giorno tornerò nel mio paese».
All’età  di 22 anni, cioè dopo sedici anni di assenza, mantenni la parola. Due dei miei libri riportano le avventure di allora. In quell’occasione ho scoperto, tra le altre cose, che non bastava essere nati nel paese del Sol Levante per farne parte. Ma quello che non sono riuscita a esprimere è fino a che punto quel ritorno in Giappone mi ha salvata. Se non sono riuscita a dimostrare di essere giapponese, in quella terra eletta sono però riuscita ad attingere forze durature.
Poi, ho di nuovo lasciato l’arcipelago. Ed è ricominciato il lavorio del lutto. Ho imparato a non nascondermi più sotto il tavolo e a sedermi a scrivere. Dovevo riadattarmi a una delle mie più vecchie abitudini: la mancanza di ciò che si ama.
Il rimprovero amoroso che mi è stato mosso più spesso è questo: «Tu dici di amarmi ma fai tranquillamente a meno di me». È un punto su cui non sono mai riuscita a spiegarmi. Qualsiasi essere amato diventa per me il Giappone, perciò mi sembra normale sentire una dolorosa mancanza nei suoi confronti. Non sono più stoica di nessuno, semplicemente ci sono abituata. Quando soffro per una mancanza estrema, so che sono io. È già  qualcosa.
Stupore e tremori è stato pubblicato da Albin Michel nel 1999. In seguito alla pubblicazione, come si può immaginare, sono stata invitata in Giappone 245 volte in modo ambiguo: l’idea era che dessi delle spiegazioni. Mi sono sempre rifiutata: non c’era niente da spiegare. Stupore non è un libro a tesi, è il racconto di una disavventura professionale in un’impresa giapponese. Oggi è così che l’opera viene recepita e non fa più scandalo.
L’11 marzo 2011 c’è stato Fukushima. Da allora sono pochi quelli che osano andare in Giappone. Ho perso il conto dei conoscenti che hanno annullato un viaggio programmato. Quando dico loro che è proprio ora che bisogna andare sull’Arcipelago, per solidarietà  e per dimostrare che quella terra non è appestata, mi rispondono che il rischio è troppo grosso. Al che mi fanno notare con l’aria di chi la sa lunga che quella povera gente è vittima della disinformazione. In pratica tutte le scuse sono buone per mettere in dubbio non solo l’intelligenza dei giapponesi ma anche il loro coraggio.
Questa continua provocazione ha contribuito a farmi accettare il 246esimo invito. Non che abbia motivo di darmi delle arie: evidentemente non è il paese del Sol Levante ad avere bisogno di me, ma sono io ad aver bisogno di lui. Dal mio ultimo esilio sono di nuovo passati sedici anni: sembra che la mia autonomia da quella terra sia di sedici anni. Le mie batterie sono quasi completamente scariche, è proprio ora di tornare alla fonte.
Alla fonte di che? È questa la domanda da 10 miliardi di yen. Su una cosa sono tutti d’accordo: laggiù c’è qualcosa di speciale. Ma cosa? Su questo ciascuno ha la sua opinione. Quelli che hanno scritto di più sull’argomento sono i giapponesi: i saggi sulla famosa specificità  giapponese non si contano. Ne sono venute fuori teorie più o meno sconvenienti, se non decisamente perniciose, tant’è vero che basta nominare un’impressione per screditarla. Secondo me, l’unico a essersi mostrato convincente è stato Junichiro Tanizaki con Libro d’ombra (1933), testo ammirevole, di una poesia straordinaria. Però la sua spiegazione non dà  conto di tutte le miserie giapponesi, tutt’altro.
Se mi chiedono che cosa vado a cercare in Giappone, non ho parole per dirlo. Sento molto profondamente, nella cassa toracica, ciò che va in fibrillazione alla sola idea di respirare di nuovo l’aria giapponese, e mi rifiuto di svalutare con termini inadeguati una pulsione così forte. Tutto quello che so è che, come l’ultima volta, ho bisogno di essere salvata. Da che cosa? Se lo sapessi, sarei già  sulla via della salvezza, ma non è così. So che il Giappone ha il potere di salvarmi perché lo ha già  fatto. La mia salvezza, evidentemente, è un progetto di infima portata: tuttavia, confesso che a me sta a cuore.
(traduzione 
di Elda Volterrani) 
© Le Monde


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