by Editore | 30 Marzo 2012 8:04
VERONA – Una bottiglietta di Gatorade riempita di benzina. Un accendino rosso. Neppure un biglietto, stavolta. E nemmeno un nome, se è per questo. Solo grida confuse, parola biascicate: «Aiuto, aiuto, brucio௿½ Non ce la faccio più». La cameriera coi capelli rossi che lavora al Bar Bra, proprio lì di fronte, lo racconta con un riso nervoso: «C’era un gran casino, dice, ieri mattina, poco prima delle dodici in piazza Bra, nel centro più centro di Verona. C’erano un sacco di carabinieri e vigili e poliziotti. C’era una famiglia che protestava perché il Tribunale dei minori aveva dato in adozione il loro figlio, ma questo non è che si capiva bene; e poi qui, ogni giorno ce n’è una. Infine è comparso quello lì. Ha cominciato a gridare, si è tirato addosso la benzina, si è dato fuoco. Qui al bar – racconta – sono entrati trafelati i carabinieri, ci hanno chiesto se avevamo gli estintori. Glieli abbiamo dati. Ho attraversato la strada e l’ho visto: era un ragazzo giovane, con la pelle scura, che gridava come un matto: “Non voglio spacciare, non voglio rubare, voglio lavorare”. Aveva il petto nudo, si era acceso lì».
È il secondo in due giorni. Mentre il giovane operaio marocchino di Verona veniva soccorso, nell’ospedale di Parma un altro uomo lottava con la morte. Giuseppe, 58 anni, imprenditore edile di Bologna, strozzato dalla crisi e disperato per un contenzioso con il Fisco mercoledì si era dato fuoco davanti alla sede dell’Agenzia delle entrate: è ancora gravissimo, dicono i medici.
Qui a Verona, dalle finestre di palazzo Barbieri, che è la sede del Comune, quello che succede lo vedono dall’alto. Sentono altre parole, le raccontano: diceva che da quattro mesi non gli danno lo stipendio, che lui aveva lavorato, ma che il padrone non lo aveva pagato. «Forse – e lo dicono perché non hanno visto la benzina e le fiamme – ha approfittato che c’era confusione, voleva che si accorgessero di lui, ma non voleva darsi fuoco per davvero». Chissà quel ragazzo che cosa voleva per davvero. Di lui, quando è ormai tardi la sera, si sa pochissimo. Nemmeno il nome. Solo che veniva da El Kelaa, Marocco. Che è nato nel 1985. Che alla voce stato civile aveva scritto celibe. In Italia comunque, era regolare. Non era un clandestino disperato. Si sa che adesso è ricoverato in ospedale, reparto psichiatria, in osservazione. Il tentativo di suicidio non ha lasciato tracce indelebili sul suo corpo. La benzina era poca, i carabinieri in zona tanti e gli estintori del bar a portata di mano. Il referto dell’ospedale parla di «eritema», di «lesioni lievissime». E nulla dice purtroppo delle motivazioni che hanno portato un ragazzo di 27 anni a darsi fuoco nel cuore di uno dei distretti produttivi che trainano – o trainavano – il Paese. Al padiglione 21, allo psichiatrico, le bocche – oltre che le porte – sono chiuse. Nessuno passa di qua. Ricoverato, c’è un fantasma. Nessuno cerca l’uomo senza lavoro e senza famiglia.
La carta di identità che tiene nella tasca dei calzoni racconta solo un pezzo della storia: la data del rilascio è il 2007, vuol dire che il ragazzo era qui da almeno quattro anni. E poi c’è un indirizzo, è quello di una palazzina gialla con le persiane verdi, nel quartiere Santa Lucia. Lì, però, all’interno 11, che è proprio l’indirizzo sui documenti del ragazzo, abita una famiglia colombiana. Sì, racconta il proprietario, qui abitavano dei marocchini, ma questa è casa mia, ci vivo da due anni, per mandarli via ho dovuto fare causa. È terribile, dice, che quello abbia cercato di bruciarsi௿½ dev’essere stato davvero disperato. E sono le uniche parole di solidarietà . Sì, era disperato. Da gennaio, almeno, viveva dove capitava: la notte in un dormitorio, e ogni volta o quasi devi cambiare l’indirizzo; mangiava alle mense dei poveri. Rino Allegro, che fa la Ronda della Carità , e che porta cibo e coperte a chi non una casa, però non se lo ricorda proprio. Le indagini stanno cercando di dare dei contorni a una vita, prima ancora che a una storia. Oggi proveranno a interrogarlo. Pare che il suo datore di lavoro fosse un marocchino come lui, uno che aveva fatto strada e messo su una cooperativa. Uno che – forse – gli aveva promesso l’assunzione e che invece non gli pagava da mesi nemmeno lo stipendio. Per colpa o a sua volta perché a sua volta era strozzato dalla crisi?
Dalla Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, lancia di nuovo l’allarme: «Bisogna – dice – intervenire con misure emergenziali, non possiamo stare a guardare in silenzio l’ennesimo gesto di disperazione». Sicuramente, aggiunge, c’è un effetto imitazione, ma il denominatore comune di queste storie è la crisi economica. E ripropone il fondo di solidarietà per dare un sollievo alla disperazione di chi è immerso nella crisi e non vede strade per uscirne. Anche da Roma il presidente della commissione lavoro della Camera, Silvano Moffa, lancia l’allarme: «L’operaio che si è dato fuoco perché da mesi senza stipendio rappresenta un fatto gravissimo che evidenzia il forte disagio che vivono molti lavoratori e la politica non può non interrogarsi». «Le fasce più deboli – commenta Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista – stanno pagando un prezzo troppo alto. Nel Paese si moltiplicano i gesti di disperazione e le banche non fanno credito a chi lavora e cerca disperatamente di mantenere l’occupazione». «L’Italia che non ce la fa – sono le parole di Michele Ventura, del Pd – esce dall’anonimato della moltitudine per diventare il caso del giorno».
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