by Editore | 20 Marzo 2012 8:06
VERNAZZA (La Spezia) — L’ultima volta ci avevamo camminato sopra. E non ci eravamo accorti che a metà di via Roma c’è una piccola cappella votiva dedicata a Santa Marta, e poco più lontano si trovava la farmacia del paese.
I soccorritori, noi giornalisti e i superstiti, camminavamo su quattro metri di fango e detriti, una crosta spessa che aveva alzato il livello della strada ai primi piani delle case, dalla quale ogni tanto spuntava qualche spicchio di insegna che permetteva di capire come fosse la toponomastica prima di quel disastro. La tabaccheria doveva essere qui sotto, là c’erano il ristorante e la bottega dell’artigiano. Il sottopasso stradale, la stazione, con la sua scritta blu che si stagliava sul mare, piazza Marconi e il suo porticciolo appoggiato alla chiesa visto un milione di volte nelle foto. Non c’era più niente, tutto sepolto dal torrente gonfio di pioggia che si era ripreso il suo posto, come se avesse voluto cancellare l’opera dell’uomo, o punirlo per la sua distrazione.
Il 25 ottobre 2011, poche ore dopo l’alluvione, Vernazza era così. Una massa informe e grigia percorsa da rivoli d’acqua. Morirono solo quattro persone, e fu una specie di miracolo. Veniva da piangere, e c’era tanta gente che lo faceva, a guardare il cartello dell’Unesco all’imbocco della calata a mare che dichiarava questo paese patrimonio dell’umanità , come il resto delle Cinque terre. «Ce la faremo» dicevano tutti, ce la farete, ripetevamo noi forestieri, cullando il rimorso per quella che ci sembrava una piccola bugia detta a fin di bene.
Ce l’hanno fatta, invece. Ci stanno riuscendo davvero, a non far morire questa meraviglia incastrata tra cielo e mare, e neppure questo è un modo di dire. In un lunedì che annuncia primavera, la piazzetta sul mare è affollata di gente che prende l’aperitivo, anziani che chiacchierano sulle panchine guardando le onde che si infrangono sulla chiesa di Santa Margherita. Non c’è più traccia di quel fango, come se non ci fosse mai stato.
Il ristorante che domani accoglierà Giorgio Napolitano era sommerso dall’acqua e dalla melma. Oggi il Gambero rosso esibisce la sua bella targhetta «aperto», e dalle sue cucine arriva un profumo invitante. Il presidente della Repubblica arriva per partecipare a un convegno che si svolge nel posto giusto, «Dall’emergenza alla prevenzione, risorse e politiche per il territorio».
Hanno già riaperto cinque locali, altri sono quasi arrivati a destinazione. I segni della devastazione sono ancora su qualche porta sbarrata, ridipinta con disegni e scritte che raccontano quel che è successo dopo, una volta spenti i riflettori sulla tragedia. «Sorridere, ridere, e ritrovarsi ancora insieme», «Insieme con anima e cuore». Sembrano frasi da baci Perugina, ma sono la cronaca di questi cinque mesi appena trascorsi. «Certo che sono orgoglioso» dice Paolo Basso, il titolare della Taverna del capitano. «Tanta gente che prima non si parlava più, sa com’è la vita nei piccoli paesi, ha ricominciato subito a farlo, e i risultati si vedono».
Succede spesso che noi media raccontiamo le brutte storie e poi andiamo via, perdendoci quelle belle, il seguito di tragedie che spesso sembrano definitiva. A Vernazza, travolta da sessantamila metri cubi di detriti, la bellezza sta nel poter nuovamente camminare sulle pietre del selciato vecchie di secoli, ognuna di esse recuperata dal fango e rimessa al suo posto. Sta nel sorriso di Niccolò Elena, il farmacista, che non guarda neppure la foto appoggiata su uno scaffale, lui con il caschetto e lo sguardo perso in un locale sommerso dai detriti, lo stesso dove stiamo parlando adesso, tirato a lucido che sembra nuovo di zecca.
«Guarda che non ci siamo solo noi» dice il sindaco Vincenzo Resasco, gli stessi occhi lucidi, la stessa faccia stanca di quella notte, e ha ragione da vendere. L’alluvione di fine ottobre fece 25 morti disseminati tra Borghetto di Vara, il paese nell’entroterra spezzino, Bocca di Magra, e poi giù, fino alla provincia di Messina. «I tecnici mi hanno detto che qui, in sole 24 ore, è caduta una quantità d’acqua pari a due Vajont. Dobbiamo imparare a convivere con queste alluvioni tropicali, per questo abbiamo organizzato il convegno, invitando i Comuni colpiti da quel dramma».
Vernazza si sta rimettendo in piedi da sola, con i suoi volontari giunti da tutta Italia che ogni sabato mattina rispondono presente alla «comandata», una per le pietre ancora da spostare, un’altra per mettere nei sacchi quelle che serviranno a ricostruire i muri a secco delle colline, un’altra ancora per la pulizia delle strade e per il recupero dei sentieri. Ma ha dovuto anche fare una scelta difficile per ottimizzare i pochi soldi rimasti nelle casse comunali e gli aiuti arrivati dalla Regione Liguria, privilegiando il fronte mare e il centro storico, in vista di una stagione turistica che qui si sovrappone alla sopravvivenza economica. Sopra alla stazione, là dove scorreva il torrente, la strada provinciale è una specie di gimcana tra argini sbrecciati e asfalto sfondato. E le colline della val Chiappa incombono, con le loro coltivazioni a terrazza sformate dall’acqua e dall’abbandono degli uomini.
«Abbiamo rispettato ogni tappa — dice Resasco —, compreso l’appuntamento con la bella stagione, non mi vergogno a dire che per noi era vitale. Adesso arriva la parte più difficile. Dobbiamo intervenire sul corso d’acqua e convincere la gente a tornare all’agricoltura». Questa è gente che non chiede, lo ha dimostrato. Ma c’è un lavoro ben fatto da finire.
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