Verità  giudiziarie e condanne politiche Gli storici non emettono sentenze

by Editore | 11 Marzo 2012 19:45

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Si è riesumata una presunta differenza tra verità  giudiziaria e verità  politica, intendendo che la seconda sia più impegnativa della prima e possa richiedere una condanna pubblica anche in presenza dell’assoluzione della corte. Peggio, si è fatto riferimento a una verità  storica, che — collegando il caso ad altri analoghi e leggendoli tutti in una prospettiva lunga — sarebbe in grado di sciogliere le incertezze dell’oggi. Un’idea piuttosto debole. Di regola, gli storici non svelano i misteri del passato. Possono anche operare con le tecniche induttive di uno Sherlock Holmes, come auspicava un famoso articolo di Carlo Ginzburg, ma non certo per sapere più di quanto ai contemporanei fosse già  noto: semmai (grazie al faticoso uso delle fonti) per sapere le stesse cose. Restano oscuri per taluni aspetti non secondari — malgrado i tentativi della ricerca — «storici casi giudiziari» come l’assassinio di Giacomo Matteotti o la prigionia di Aldo Moro. La stessa apertura di archivi prima segreti, com’è accaduto con i regimi totalitari novecenteschi, non ha portato a rivelazioni decisive, permettendo piuttosto di corroborare con prove documentarie quel che, nella sostanza, si sapeva. I grandi segreti della politica, come la decisione dell’Olocausto o le pratiche staliniste dello sterminio per fame, rimangono chiusi nel cassetto. Certo, lo storico colloca fatti e misfatti del passato all’interno di contesti che ne diano ragione. Ma si tratta di spiegazioni, non di sentenze o di revisioni di sentenze. E sarebbe cattiva storia quella che intendesse applicare alle responsabilità  individuali — più o meno penalmente rilevanti — una comprensione suggerita del quadro complessivo nel quale avvengono i fatti. Sebbene un simile giustificazionismo non sia raro nei libri di storia, è dubbio che possa essere assunto come una sorta di verdetto, definitivo e risolutivo. Ed è dubbio che il caso Dell’Utri trovi la sua specifica verità  collocandolo, un domani, in una considerazione di lungo respiro sulla Sicilia, le sue élite, la sua rete mafiosa. Dopotutto, chi voglia, questo può farlo anche oggi. Al di là  delle umane ambizioni degli storici, non è detto che guardare una cosa da lontano sia più efficace, rispetto alla vista ravvicinata del giudice. Ma neppure è detto che la verità  storica possa essere ritenuta superiore alla verità  politica, per il buon motivo che la storia stessa è intrisa di politica. Non a caso, il giudizio sul passato cambia continuamente e, se cambia, non è soltanto perché lo studioso acquisisce nuove fonti e nuove informazioni. Il fatto è che, lungi dall’essere ingenuo e imparziale, lo storico è figlio del proprio tempo, ne assume consapevolmente o inconsapevolmente la cifra politica, ne riflette le contrapposizioni, ne respira la gerarchia delle rilevanze. Il giudizio degli studiosi sul risorgimento italiano o sul fascismo spagnolo, sulla schiavitù nordamericana o sulla democrazia greca ha conosciuto fasi a dir poco alterne, che riflettono i contesti nei quali quegli studiosi lavoravano. Non sarebbe realistico scrivere una storia della storiografia che non fosse anche una storia delle stagioni politiche. È probabile che, affidandosi alla presunta sapienza di Clio, Marcello Dell’Utri verrebbe talvolta assolto, altre volte condannato. Meglio contentarsi di quel che ha detto, l’altro ieri, la Cassazione.

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