Un’identità  senza tempo

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Da qualche tempo osserviamo un fenomeno curioso. Da un lato, il linguaggo della legalità  viene utilizzato, sempre più frequentemente in Italia, come segnalatore di un anelito di mutamento politico profondo, di critica alla «partitocrazia» e alla «casta», di promozione del rispetto delle regole costituite come precondizione per l’emancipazione sociale. Questo processo simbolico, iniziato con Tangentopoli e molto fiorente nella stagione del berlusconismo, porta a trascurare paradossalmente le conquiste giuridiche del garantismo e si trasforma sovente in una legalità  forcaiola e poliziesca. Tale legalismo diffuso ed ambiguo allinea inoltre l’Italia al coro di consenso per la rule of law, attraverso cui le istituzioni globali condizionano i processi politici di gran parte del mondo, dall’Africa all’Asia, all’America Latina, in piena continuità  con l’epoca coloniale. Banca Mondiale, e Fondo Monetario tacciano i sistemi giuridici politici dei paesi periferici (oggi è il turno della Grecia) di corruzione e carenza di legalità , assumendosi l’«onere» (bianco) della loro civilizzazione.
Per contro, la critica all’ambiguità  del legalismo e all’«industria della legalità », comincia a farsi strada nella letteratura giuridica critica, nella polemistica più acuta (e qui il volume di Alessandro Dal Lago su Roberto Saviano è citazione d’obbligo) e nella prassi politica più viva, che va organizzandosi intorno alla difesa dei beni comuni. Dalla battaglia contro la Tav in Val di Susa alle crescenti esperienze di occupazione (in particolare, ma non solo il Teatro Valle), sgorgano ricche ed innovative «prassi costituenti» articolate proprio in polemica con una legalità  costituita che mostra vieppiù il proprio volto stolto, brutale (le immagini di Piazza Sintagma mentre il Parlamento trasforma il legalità  costituita il neocolonialismo globale sono più efficaci di ogni disquisizione teorica) e pure incostituzionale.
Violenza del colonialismo
In Italia la contrapposizione fra legalismo e vocazione «ri-costituente» insinua un cuneo anche a sinistra, visto che i legalitari duri e puri non si trovano certo nel solo Pd. Inoltre, le roboanti velleità  di partecipazione al «consesso delle nazioni civili» non sono certo tramontate con il passaggio del Viminale dall’inquietante La Russa ad un militare. Anzi, la «ripresa» di quotazione dell’Italia post-berlusconiana in un’Europa che vuole «competere» per l’egemonia globale è indice dela grande ambiguità  della nostra condizione. Come la Grecia siamo potenziali vittime del colonialismo interno ma allo stesso tempo il pensiero dominante vorrebbe vederci alla pari di Francia e Germania nel portare avanti il progetto neocoloniale (non passa giorno in cui non si celebri la lungimiranza di Scaroni in Libia).
È poco più che una banalità  osservare che nei frangenti e nelle transizioni più ambigue la storia debba essere maestra. Fa piacere quindi che sull’esperienza coloniale italiana si cominci finalmente a riflettere anche oltre la stretta cerchia degli africanisti, confrontandoci criticamente con il mito degli «italiani brava gente» per sfatare il quale tanto si sono spesi maestri come Angelo del Boca e Gianpaolo Calchi Novati. Ad esempio, Il recente documentario Inconscio Italiano offre una carrellata di punti di vista di grande interesse (oltre allo stesso Del Boca, di particolare acutezza Ida Dominijanni e Alberto Burgio) ed apre una serie di interrogativi sul nostro passato e soprattutto sul nostro presente per rispondere ai quali il contributo della storiografia accademica più avvertita non può che essere preziosissimo. Poiché il colonialismo, al pari del legalismo, si manifesta come un aggregato di dispositivi di forza, di giuridicità  e di ideologia, e poiché l’insicurezza nei confronti di colonialismi più avanzati è una cifra della nostra esperienza (oggi come allora Francia Germania, ed Inghilterra sono protagoniste dei nostri sogni/incubi), si sentiva il bisogno di una ricostruzione istituzionale della vicenda italiana in Africa capace di far tesoro degli apporti multidisciplinari della critica postcoloniale. Chiara Giorgi, L’Africa come carriera. Funzioni e funzionari del colonialismo italiano (Carocci, pp 212, euro 22) soddisfa quest’esigenza riuscendo per giunta ad esser scevra del linguaggio iniziatico che spesso ne rende ostici i contributi accademici più ricchi.
Le armi del potere
Dal punto di vista che qui affrontiamo, la critica alla legalità  costituita si arricchisce così del nuovo importante libro della giovane storica dell’Università  di Genova che, pur dotato di tutto il rigore della monografia scientifica, offre materiali nuovi accessibili anche a chi, senza essere storico di professione, sia interessato a costruire il pedigree dell’ideologia della legalità , interrogandola in era coloniale con un occhio al neocolonialismo che sconvolge le nostre vite e quelle di popoli a noi assai vicini. Si tratta di una lettura di grande interesse che fa fare un passo avanti alle nostre conoscenze del rapporto molto intimo fra legalità  e colonialismo, in sintesi sull’uso violento di apparati di potere organizzato nei confronti di popolazioni e soggettività  più deboli. Sia chiaro, la letteratura italiana sul colonialismo giuridico, ben nota a Giorgi, è tutt’altro che povera e si è arricchita immensamente per l’imponente ricerca curata qualche anno fa da Pietro Costa per i Quaderni Fiorentini per la Storia del pensiero giuridico moderno.
Fin qui la ricostruzione giuridica era dedicata agli apparati formali (se non direttamente al diritto positivo), pur descritti con tutta la consapevolezza possibile del ruolo di quei produttori di legittimità  che sono i giuristi professionisti (di regola accademici). Nel libro di Giorgi, e qui sta a mio avviso il suo principale apporto di originalità , quella trama formale prende vita, perché in fondo le istituzioni sono fatte di persone reali, in carne ed ossa, con le quali intrattengono una corrispondenza biunivoca, agendo in modo comunicativo. Le storie personali dei funzionari, le loro ambizioni, le loro meschinità , i loro a volte grandi ed ingenui sogni e financo i loro amori (splendido il capitolo dedicato a Dante Odorizzi) formano le istituzioni coloniali e allo stesso tempo ne sono formate, sicché il diritto, come organizzazione del potere formale, emerge in tutta la sua natura ambigua di arma di potere (la legge del più forte) ma anche talvolta di strumento di difesa del debole.
I materiali di prima mano che Giorgi ha dissotterrato e reso accessibili tramite un certosino lavoro d’archivio sono, non a caso, in gran parte materiali giuridici come per esempio i verbali dei vari procedimenti disciplinari in cui incappavano i funzionbari espatriati o le normative (regolarmente disattese come le grida manzoniane) attraverso cui si cercava di limitare l’interazione sessuale (e dunque meticciato e creolizzazione) fra i funzionari e le donne autoctone. Molti altri vizi nostrani, (spesso indagati ramite gli scambi epistolari), che dalla madrepatria contagiano la colonia, si incontrano nelle pagine dell’ Africa come carriera. Il carrierismo e l’autoassoluzione, la clientela e la protezione dell’ uomo forte, l’incapacità  di fare i conti con il passato e la conseguente mancanza di soluzione di continuità  (dal colonialismo iberale a quello fascista, fino a quello neoliberale). Colpisce il rapporto nord-sud all’interno della penisola, che colloca il colonialismo razzista delle élites dominanti nel Dna italiano fin dalla sua unificazione sabauda, che per fortuna abbiamo finito di celebrare, ma i cui atteggiamenti arroganti sperimentiamo nuovamente col governo tecnico.
Il libro di Giorgi si apre con un accurato quadro storico identitario ed ed istituzionale (Amministrazione e civilizzazione), arricchito dalla comparazione con le esperienze coloniali di riferimento (Agenti dell’impero), e fa tesoro sempre delle sue letture di critica post-coloniale nel tracciare l’inconscio e l’ideologia della vocazione coloniale; spazia fra la madre patria e le colonie (Oltremare: continuità  e discontinuità ) indagando le storie professionali dei protagonisti (Dalla norma alla prassi) sia i più celebri (da Conti Rossini a Pollera a Cerulli) che i più oscuri, (spesso di provenienza militare, quasi sempre di formazione giuridica) consapevole che il colonialismo può indagarsi solo in riferimento alla madrepatria ma anche assolutamente conscia del fatto che l’istituzionalizzazione coloniale tracca campi semi autonomi in cui emergono stili e saperi spesso originali.
Un passato di dolore
Il volume, che ci consegna pagine molto belle sulla fascistizzazione dell’amministrazione coloniale e sulle resistenze e i conflitti da essa aperti, si chiude con una riflessione sull’abbandono dell’impero (La perdita delle colonie e il destino degli amministratori), sul clima di grande mimetismo del dopoguerra e del «si salvi chi può» che caratterizza la furbizia individualistica di casa nostra.
Negli anni mi sono interrogato (certo non da solo!) su come fosse possibile trovare tante persone ben motivate all’ opera in apparati istituzionali dll’impatto straordinariamente violento e nocivo. Chi lavora alla Banca Mondiale, al Fondo Monetario, o alla Bce può essere ritenuto moralmente responsabile delle morti e delle sofferenze prodotte dalle politiche neocoloniali di questi apparati sulle popolazioni oggetto delle loro scellerate politiche neoliberali? È possibile per la persona mantenere l’umanità  quando inserita in apparati istituzionali di oppressione, siano essi le strutture gerarchiche di una multinazionale, o quelle di un’amministrazione d’oltremare? Esistono collaborazionismi giustificabli dal punto di vista morale o sociale? Quali investimenti culturali ed ideologici sono necessari per persuadere l’italiano (oggi l’europeo) medio che prospettive di lavoro nell’industria bellica (un tempo in colonia) legittimano la partecipazione al progetto F35 o Eurofighter? È davvero possibile cambiare le istituzioni «dall’interno» o l’uomo è istituzione e in quanto tale le sue motivazioni e i suoi talenti individuali sono irrilevanti?
La riflessione spassionata sul nostro Dna coloniale aiuta ad affrontare questi temi e conferma l’indispensabilità  dell’approccio storiografico nel tentativo di raggiungere finalmente una consapevolezza comune sul nostro passato e sul nostro destino.

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I «Saperi in polvere» del postcoloniale

Cinque saggi per orientare l’esplorazione degli studi culturali e postcoloniali. Non che siano assenti mappe, ma questo è un volume che ne evidenzia il lato politico, troppo spesso rimosso dalle accademie europee e statunitensi (altrove questo non accade, anzi gli studi culturali e postcoloniali sono veri e propri laboratori teorici-politici). Il volume, nato da alcuni seminari del collettivo Bartleby di Bologna, è stato recentemente pubblicato da ombre corte edizioni con il titolo «Saperi in polvere» (pp. 141, euro 14). Gli autori sono Paolo Capuozzo («La critica postcoloniale e i paradigmi della storia del mondo»), Miguel Mellino («Il lato oscuro della Englishness»), Anna Curcio («Questo mondo invisibile. Classe, razza e genere tra colonizzazione e decolonizzazione del sé»), Gigi Roggero («L’anatomia dell’uomo e una chiave per l’anatomia della sciemmia?») e Sandro Mezzadra («In viaggio. Michel Foucault e la critica postcoloniale»).


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