by Editore | 22 Marzo 2012 7:16
«Faccio il lancista. Anche mio padre faceva il lancista e adesso è malato di silicosi. Il Mugello è il posto più vicino a casa… ho lavorato a Cuneo (…), poi Udine, Valtellina, Aosta, Torino, San Remo… strade, ferrovie… Gravellona Toce, Aurelia bis, Carnia Tarvisio… sono quasi trent’anni che faccio questo mestiere (…) Quello che ho fatto io non lo vorrei per i miei figli». Sono parole di un lavoratore calabrese dei cantieri appenninici, riportate nell’inchiesta di Simona Baldanzi, Mugello sottosopra, coinvolgente ricostruzione sociologica e narrativa delle vite e del lavoro di chi ha fisicamente costruito le gallerie e i viadotti dell’Alta velocità ferroviaria e della variante di valico autostradale.
Pendolari per sempre
Anche al di là del caso, forse estremo, delle vite migranti dei lavoratori delle grandi opere («siamo nomadi», lamenta un altro operaio, mentre altri ancora hanno percorsi lavorativi globalizzati), il mercato del lavoro italiano è tutt’altro che immobile e i movimenti non sono solo quelli degli immigrati extraeuropei. Lo ha ricordato un recente fascicolo della rivista «Sociologia del lavoro», dal quale si evince che a partire dagli anni Novanta quasi un milione di persone si sono spostate dal Mezzogiorno al Settentrione. Per quanto più evidenti, i flussi interregionali non esauriscono le forme della mobilità : tutti abbiamo fatto o facciamo esperienza di una qualche forma di pendolarismo e molti hanno dovuto affrontare il peggioramento di un sistema di trasporti che ha privilegiato i grandi cantieri e ha subito il taglio delle risorse locali, rendendo più difficili gli spostamenti ordinari quotidiani, tanto che sempre più persone sono costrette dall’indisponibilità di bus e treni a ricorrere all’irrazionale automobile.
Anche se a scuola insegnano che la rivoluzione industriale ha mutato gli spazi del lavoro, separando residenza e sede di attività , la mobilità territoriale dei lavoratori, lo studio dei loro spostamenti ha costituito un fenomeno tanto diffuso quanto trascurato dalle scienze storiche e sociali e solo negli ultimi anni si vanno registrando segnali di maggiore attenzione. L’Italia rappresenta un caso di grande interesse. Per la portata del fenomeno, uno dei più consistenti movimenti migratori della storia, e per le sue ricadute politiche, l’emigrazione transoceanica degli italiani fra Otto e Novecento ha suscitato molte ricerche, e più in generale la migrazione oltreconfine ha costituito un vero e proprio settore storiografico (per un agile profilo d’insieme si veda la sintesi di Donna Gabaccia, Emigranti). Molto meno indagate risultano invece le migrazioni interne. Se i flussi degli anni del boom economico hanno incontrato subito l’interesse dei sociologi (basti pensare al classico studio di Goffredo Fofi L’immigrazione meridionale a Torino), hanno tuttavia contribuito anche a una distorsione nella percezione storica dei processi di mobilità . Come rilevò per tempo Anna Treves, l’esplosione dei tardi anni Cinquanta, pur avvertita, non a torto, come una svolta epocale, era stata preceduta da picchi di spostamenti di residenza già negli anni Trenta e negli anni Dieci del Novecento.
Aiuta oggi a risalire oltre lo snodo della «grande migrazione» e a collocarla in un contesto di continuità e rottura dei sistemi migratori nella storia nazionale un recente, denso volume di sintesi: Senza attraversare le frontiere di Stefano Gallo rappresenta il primo tentativo, brillantemente riuscito, di ricostruire l’insieme di un secolo e mezzo di movimenti migratori interni. L’autore, collaboratore dell’Istituto storico della Resistenza di Livorno e dell’Università di Pisa, ha optato per una prospettiva «politica». Fedele alla lezione di Leslie Page Moch, la studiosa statunitense cui dobbiamo la più felice ricostruzione d’insieme della mobilità europea fra Sei e Novecento, Gallo sottolinea la peculiarità novecentesca nell’accresciuto ruolo dello Stato e di altre istituzioni nella regolazione dei flussi migratori. Anche la migrazione «libera» dei secoli precedenti era frutto di una scelta politica, ma le autorità novecentesche si sforzarono di creare, indirizzare o impedire i flussi: e per farlo dovettero conoscerli, producendo una migliore documentazione statistica sulla mobilità , che pure resta lacunosa proprio sulle forme più diffuse, le migrazioni temporanee e stagionali, perché privilegia il criterio della residenza su quello del lavoro.
I contorni dei mercati del lavoro non corrispondono quasi mai alle frontiere nazionali o alle partizioni amministrative interne e, più in generale, la mobilità ha un effetto politico destabilizzante: tuttavia la massa di attraversamenti illegali dei confini o di residenze clandestine, naturale pendant dell’interventismo statale, è stata oggetto di tolleranza, sorveglianza o repressione, ma ha comunque complicato le condizioni di vita e lavoro, già precarie, dei lavoratori migranti.
Questa scelta di fondo per una storia anche politica delle migrazioni si manifesta nell’articolazione di Senza attraversare le frontiere in tre parti, che corrispondono alla canonica periodizzazione politica della storia d’Italia. Del cinquantennio postunitario Gallo segnala le continuità secolari di processi migratori interni nel segno degli spostamenti periodici nelle campagne, ma anche le rotture rappresentate dall’emigrazione di fine secolo, che pure evidenzia l’esistenza di una peculiare «cultura» migrante nei subalterni italiani, e dalla trasformazioni nelle comunicazioni e nei trasporti, che aiutano a comprendere l’aumento della mobilità , specie circolare, che unisce città e campagne.
Come aveva rivelato una delle grandi inchieste napoleoniche del primo Ottocento, e come avevano confermato negli anni che precedono la Prima guerra mondiale gli studi ministeriali dell’Ufficio del Lavoro, coordinati da un intellettuale socialista del calibro di Giovanni Montemartini, l’Italia del lungo XIX secolo fu segnata da imponenti migrazioni stagionali segmentate in grandi bacini migratori (la pianura padana, la Maremma e l’Agro romano, il Tavoliere, la Sicilia). Per fronteggiare la disoccupazione e impedire la concorrenza fra lavoratori, foriera di divisioni e di manipolazioni padronali, il movimento operaio dovette misurarsi con questa realtà e non a caso sia i braccianti della Federterra sia i riformisti della Società Umanitaria (come lo stesso Montemartini) cercarono di elaborare riflessioni e strategie per controllare il mercato del lavoro e razionalizzare la mobilità .
Spostamenti di massa
Gli anni fra 1915 e 1918 rappresentarono un laboratorio anche per il controllo della mobilità : oltre alle tradotte per le trincee del fronte, lo Stato si premurò di organizzare i movimenti della forza-lavoro agricola, i flussi verso le città e i cantieri nelle immediate retrovie delle zone di guerra, ove centinaia di migliaia di manovali, soprattutto meridionali, continuarono a costruire il «fronte». Negli anni fra le due guerre l’«Italia fascista» ereditò queste esperienze per cercare di ridurre gli espatri e controllare la crescita urbana e la mobilità , soprattutto quella bracciantile, intensissima sin dal secolo precedente. Se l’emigrazione calò per effetto della chiusura statunitense e poi della grande crisi e dell’isolamento italiano, gli altri due obiettivi furono perseguiti attivamente, anche se con effetti lontani dagli auspici o dai toni della propaganda. Con la gestione del collocamento pubblico, il sindacato fascista creò continue divisioni all’interno della classe operaia sulla base della fedeltà al regime e di vaghi radicamenti territoriali, resi più cogenti delle contraddittorie norme contro l’«urbanesimo».
Dal 1931 il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna prese a organizzare spostamenti di massa in occasione di grandi lavori pubblici, specie le bonifiche laziali e sarde, pur senza rinunciare a controllare e spesso reprimere i movimenti spontanei dei disoccupati alla ricerca di lavoro. Inoltre, per quanto celebrate come soluzione all’esuberanza demografica degli italiani e al bisogno di lavoro, le colonie non rappresentarono mai una meta di migrazione. Comunque il regime creò tradizioni di gestione della mobilità e i il lavoro dei suoi apparati accompagnò la fine dei sistemi migratori tradizionali, l’avvio dello spopolamento montano e l’accelerata urbanizzazione.
La Seconda guerra mondiale vide nuove drammatiche dinamiche, dal rientro degli emigrati, alla deportazione e allo «sfollamento» delle città sotto l’incalzare dei bombardamenti, con relativo «pendolarismo di guerra». Dopo questo esordio bellico, la terza parte del libro si concentra sulla mobilità nell’«Italia repubblicana»: ripreso il flusso verso l’estero, soprattutto verso alcuni paesi europei, sin dai primi mesi dopo la Liberazione, dieci anni dopo i movimenti interni cominciarono una vertiginosa ascesa, fino agli oltre due milioni di cambi di residenza del 1962.
La svolta degli anni ’80
Fuga dalle campagne e spostamenti di massa fra Mezzogiorno e triangolo industriale cambiarono il volto del paese, che pure continuava a ospitare significative migrazioni stagionali in agricoltura e che condannava alla clandestinità (prima dell’abrogazione della normativa fascista nel 1961) parte dei flussi che alimentavano l’urbanizzazione. Le amministrazioni locali cittadine, anche per la pressione del Pci e delle organizzazioni dei lavoratori risolutamente schierate per un’effettiva integrazione sociale, furono le più attive nel tentare di governare il fenomeno dell’afflusso di rurali, meridionali e non. Dieci anni dopo, la grande conflittualità operaia rivelò una massiccia partecipazione di lavoratori immigrati, che smentirono così le residue diffidenze in merito a una loro presunta «arretratezza».
Dopo i grandi cicli di lotta, il censimento del 1981 mostrò che l’Italia, dopo un secolo di emigrazioni di massa, aveva cessato di esportare manodopera e cominciava a importarne. Anche la mobilità interna diminuì, le aree centrali delle città si svuotarono per effetto della avanzata urbana nelle zone rurali e dell’assorbimento dei paesi vicini, una parte degli immigrati meridionali fece ritorno nelle zone di origine. Ma alla metà degli anni Novanta le migrazioni interne sull’asse Sud-Nord hanno ricominciato a crescere, gli immigrati stranieri han dato vita a nuove forme di mobilità interna e le modalità ordinarie si sono diversificate: incalzati da precarizzazione e nuovi trasporti si sono registrati sempre più spostamenti individuali, temporanei, pendolari, che attenuano lo sradicamento al prezzo di un maggiore tempo speso in viaggi.
Vecchi e nuovi sfruttamenti
Accanto alle molte lezioni storiografiche che il prezioso libro di Gallo ci consegna, ce n’è anche una politica: guardare alla storia delle migrazioni italiane rende evidenti una serie di analogie, non solo quella fra emigranti italiani del passato e immigrati odierni, ma anche fra le diverse forme di mobilità del lavoro e di atteggiamento dei pubblici poteri e delle società . Le discriminazioni e le disparità , così come le dure condizioni di vita e lavoro, hanno riguardato gli italiani all’estero come i braccianti e manovali migranti, gli inurbati dalle campagne come gli immigrati stranieri: ripercorrerne le vicende può essere utile alla costruzione di una «cultura della mobilità territoriale» che sappia fare i conti con vecchie e nuove forme di sfruttamento e contribuire alla ricomposizione del lavoro salariato.
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