Un atelier segnato dall’usura del tempo

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È un peccato, almeno a mio modo di vedere, che la bizzarra vicenda politica di Lucio Colletti (il suo transitare dal Partito d’Azione al comunismo di sinistra, poi al craxismo e infine al centro-destra) abbia fatto passare in secondo piano l’interessante contributo intellettuale che egli ha dato in quanto studioso e interprete di Marx e del marxismo. Un’occasione per tornare a rifletterci è data oggi dalla pubblicazione, a poco più di dieci anni dalla sua morte, delle lezioni che egli dedicò al Primo Libro del Capitale (Il paradosso del Capitale. Marx e il primo libro in tredici lezioni inedite, a cura di Luciano Albanese, prefazione di Giancarlo Galli, Liberal edizioni, Roma 2011, pp. 210, euro 13,00.
Per quanto riguarda il metodo, la lettura collettiana di Marx si qualifica per alcune caratteristiche che la rendono difficilmente comparabile con altre: le tesi che Colletti propone sono sempre molto nette e prive di sfumature (come era nel suo carattere); e soprattutto sono presentate con una non comune nitidezza e lucidità  di esposizione. Un pregio, questo, che caratterizza anche le lezioni ora pubblicate, risalenti all’inizio degli anni Settanta e cioè al periodo immediatamente precedente la svolta verso una radicale critica del marxismo, che Colletti consegnò alla famosa Intervista politico-filosofica, apparsa prima sulla «New Left Review» e poi nel ’74 da Laterza in un volume che comprendeva anche il saggio Marxismo e dialettica. 
Tra Francoforte e Jena
Le interpretazioni filosofiche di Marx nel Novecento (una discussione riaperta, nel 1923, da Storia e coscienza di classe di Lukà¡cs) si sono disposte fondamentalmente secondo due assi di divisione: dialettici e antidialettici (cioè più o meno simpatetici nei confronti del nesso tra Marx e Hegel) e continuisti e discontinuisti (cioè più o meno propensi a vedere una frattura tra il Marx giovane e quello della maturità ). Incrociando le due opzioni, vengono fuori quattro possibilità  di lettura, nessuna delle quali è stata trascurata dagli interpreti e dagli studiosi, che in questo campo non si sono fatti mancare nulla. Tra gli interpreti filodialettici, quelli di scuola francofortese hanno privilegiato la continuità , mentre studiosi come Roberto Finelli hanno privilegiato la discontinuità , sostenendo che il vero Marx dialettico si trova solo nel Capitale. Il più deciso sostenitore della rottura tra il Marx giovane e il Marx maturo è stato un interprete antidialettico come Louis Althusser, mentre Galvano Della Volpe, il maestro di Colletti, ha sostenuto la continuità  ma nel segno dell’antihegelismo, che sarebbe già  acquisito da Marx con la critica che egli rivolge nel 1843 al filosofo di Stoccarda. 
All’interno di questo schema, la posizione di Colletti si caratterizza per la sua originalità  e per il suo interno trasformarsi: Colletti, che è rimasto sempre su posizione antihegeliane, parte dalla tesi dellavolpiana di un Marx fondatore della scienza positiva della società , dove la dialettica non ha cittadinanza. Ma, più approfondisce lo studio del Capitale, più si convince che la lettura dellavolpiana non funziona: la tesi alla quale egli perviene infatti (ben esposta in queste lezioni e illustrata da Albanese nell’Introduzione) è che, anche e proprio nel Capitale (l’opera che avrebbe dovuto rappresentare il compimento del marxismo nel segno della scienza positiva), un ruolo centrale spetta alla questione del feticismo; la marxiana teoria del valore, distinta e inassimilabile a quella di Smith e di Ricardo, non è separabile da quella del feticismo. Il tema del feticismo, però, a sua volta, non è disgiungibile da quello dell’alienazione (sviluppato nel giovane Marx e nei Grundrisse) e questo non è comprensibile senza inquadrarlo in una concettualità  di tipo dialettico-hegeliano. Marx dunque si rivela, diversamente da quello che aveva sostenuto Della Volpe, come un pensatore che in tutto il suo itinerario vede dialetticamente il capitalismo come una realtà  alienata, capovolta, rovesciata. E per concludere, proprio in quanto è tutto leggibile nel segno della dialettica, Marx viene infine interpretato come un teorico che, per l’antihegeliano Colletti, esce dalla scienza positiva e si colloca in un orizzonte speculativo che, per quanto affascinante, con essa non ha nulla a che fare. 
Il Capitale contiene certamente molte preziose analisi dello sviluppo capitalistico (questo punto, Colletti lo ribadirà  fino alla fine) ma il suo impianto generale deve essere abbandonato. E il percorso esegetico collettiano si compie dunque con l’abbandono del marxismo. La situazione (come spesso accade in Colletti) ha del paradossale: proprio quando lo ha finalmente decifrato, Colletti capisce che da Marx si deve congedare.
Ma, lasciando per un momento da parte le conclusioni cui Colletti giunge, va detto che la sua lettura (di cui ora ripercorreremo i passaggi essenziali) è decisamente precisa e convincente. Il vero punto di partenza di Marx, mostra molto bene Colletti, è che il lavoro umano è sempre sociale. Ma questo nesso sociale (che della vita e del lavoro umano è la condizione primaria) può presentarsi storicamente in due modalità  opposte: gli individui possono coordinare i loro lavori attraverso un progetto comune, oppure possono porsi come produttori indipendenti che soddisfano i loro bisogni solo incontrandosi a posteriori e scambiandosi sul mercato beni e denaro.
Una società  dei produttori
La società  è sempre una cooperazione lavorativa; ma quando la cooperazione non è posta coscientemente dagli individui, ma è realizzata solo a posteriori attraverso lo scambio dei loro prodotti, accadono alcuni fenomeni strani. Solo in questo caso i prodotti assumono la forma di merci, alle quali viene attribuito un valore, e ciò è possibile in quanto i diversi lavori individuali vengono tutti eguagliati come porzioni di astratto lavoro umano. I beni che gli uomini producono e usano diventano merci dotate di un valore (questo è il punto che l’economia classica non ha visto) solo in quanto vengono prodotti attraverso una forma di relazione molto specifica, quella di produttori indipendenti che instaurano relazioni reciproche solo a posteriori. Questa situazione, nella quale gli individui si trovano senza averla scelta coscientemente, genera secondo Marx (e secondo Coletti) alcune conseguenze rilevanti. 
Presentandosi come un dato di fatto, essa nasconde ciò che effettivamente è (una possibilità  rispetto alla quale si danno delle alternative) e produce quelle illusioni ideologiche che Marx chiama anche feticismo: gli individui appaiono come indipendenti dalla connessione sociale (e su questo si costruisce tutta l’ideologia liberale); la scambialità  e il valore appaiono come qualità  che appartengono alle cose per natura (e non come qualità  conferite da uno specifico e storicamente determinato contesto sociale); e soprattutto (Marx, e dunque Colletti, insistono molto su questo) gli individui apparentemente indipendenti diventano in realtà  dipendenti, per la soddisfazione dei loro bisogni, da una dinamica degli scambi che nessuno ha programmato né controlla. «Il carattere sociale della loro attività  – come scrive il Marx dei Grundrisse ripreso da Colletti – si presenta qui come qualche cosa di estraneo e oggettivo di fronte agli individui, non come loro relazione reciproca ma come loro subordinazione» a una potenza aliena che li sovrasta. «Dove tutti sono indipendenti gli uni dagli altri, diventa indipendente da tutti gli individui anche il loro reciproco rapporto” (Colletti, Marxismo e dialettica). Il punto di fondo si può riassumere così: il lavoro individuale è sempre lavoro sociale, l’individuo è sempre dipendente dalla società . Ma, dove vige la mediazione mercantile, la dipendenza è negata, assume la forma dell’indipendenza, diventa, come scrive Colletti, «simultaneità  di indipendenza e dipendenza»; dove la dipendenza resta comunque realissima (se non riesci a scambiare, non puoi mangiare), anzi è tanto più dura quanto meno è compresa e conosciuta. Questo, scrive Colletti (ed è divertente ricordare che anche il da lui deprecato Adorno l’avrebbe sottoscritto) «è il tema centrale di tutta l’opera di Marx» , perché non è solo il fulcro dell’analisi sociale, ma anche della critica alla teoria politica del liberalismo atomistico, che ha al suo centro proprio la rimozione della società  come necessaria cooperazione produttiva (alla quale sostituisce il lavoratore isolato proprietario di se stesso di John Locke o l’uomo naturalmente scambista di Adam Smith). 
Fin qui dunque Colletti interpreta in modo ineccepibile, anche più accuratamente dei francofortesi che pure vanno esattamente nella stessa direzione. Peccato che poi si rifiuti di proseguire. La ragione è semplice: questa peculiare natura del legame sociale mediato dal mercato (l’indipendenza-dipendenza) è qualificata da Colletti come una «contraddizione dialettica» (Marxismo e dialettica, p. 110), e ciò significa per lui che qui siamo usciti dalla scienza. D’altra parte, della contraddizione dialettica, secondo Colletti, Marx non può fare a meno perché solo la tensione in essa racchiusa ha la capacità  di sprigionare una spinta verso la trasformazione rivoluzionaria: la contraddizione è che gli individui siano separati dalla loro socialità , ed è appunto questa contraddizione a spingere verso il superamento, cioè verso la riappropriazione da parte degli individui del legame sociale che si è trasferito fuori di essi, nel denaro. La conclusione ha una sua ragionevolezza, ma ad essa obietterei con tre osservazioni molto rapide. 
Fallimento del mercato
Primo: appiccicare alla sofisticata analisi di Marx l’etichetta di «contraddizione dialettica» è certamente possibile, ma non è detto che sia necessario, anche perché per farlo bisognerebbe prima capire bene cosa significa contraddizione dialettica (su questo oscurissimo punto è da ricordare l’acuta polemica che contro Colletti sviluppò Emanuele Severino). 
Secondo: se è vero che la contraddizione dialettica serve a costruire una visione finalistica e salvifica della storia, pensata secondo il ritmo neoplatonico-hegeliano di unità  originaria, rottura e ricomposizione comunista, si sarebbe potuto dichiarare fallito questo aspetto del pensiero di Marx, ma non l’impianto generale della sua analisi. 
Infine: il vero problema che la teoria marxiana del mercato e del feticismo pone non è la «contraddizione dialettica» (che ci sia ognun lo dice, cosa sia nessun lo sa) ma l’idea che ci siano due modalità  contrapposte e reciprocamente esclusive di nesso sociale (apriori o aposteriori, programmazione cosciente o mercato). In realtà  (come ha dimostrato J. Bidet ne Il Capitale. Spiegazione e ricostruzione, manifestolibri 2010) il mercato da solo non ha la potenza di costituire il nesso sociale, e ciò significa che un nesso puramente mercantile non può esistere e non è mai esistito, ma che c’è società  solo in quanto il mercato è da sempre strutturato dallo spazio del potere, della politica e dello Stato. È a partire da questa consapevolezza che tutta la concettualità  marxiana andrebbe smontata e rimontata, per misurarla sul problema dei nessi e dei rapporti di dominanza tra economia e politica, tra «mercati» e democrazia.


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