Tutti ancora più precari
La Riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita si propone un obiettivo ambizioso: «realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità , ripristinando al contempo la coerenza tra flessibilità del lavoro e istituti assicurativi». Il testo della riforma al momento disponibile è suddiviso in 9 aree di intervento: tipologie contrattuali; disciplina su flessibilità in uscita e tutele del lavoratore; ammortizzatori sociali; estensione delle tutele in costanza di rapporto di lavoro; protezione dei lavoratori anziani; interventi per una maggiore inclusione delle donne; diritto al lavoro dei disabili; contrasto del lavoro irregolare degli immigrati; politiche attive e servizi per l’impiego. Gli obiettivi espliciti del Governo sono «il funzionamento del mercato del lavoro, lo sviluppo e la competitività delle imprese, la tutela dell’occupazione e dell’occupabilità dei suoi cittadini». Limiterò le mie considerazioni agli aspetti che ritengo principali: tipologie contrattuali, flessibilità in uscita, ammortizzatori sociali, l’inclusione delle donne nella vita economica.
Sulle tipologie contrattuali, l’azione di governo mira a «preservare gli usi virtuosi e a limitare quelli impropri» (utilizzati per abbattere il costo del lavoro). Per l’inserimento nel mercato del lavoro, viene individuato un percorso privilegiato: l’apprendistato, «punto di partenza verso la progressiva instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Tuttavia, la preferenza governativa per il lavoro subordinato a tempo indeterminato è contraddetta nella frase successiva: «Pur mirando a favorire la costituzione di rapporti di lavoro stabili, la riforma intende preservare la flessibilità dell’uso del lavoro necessaria a fronteggiare in modo efficiente sia le normali fluttuazioni economiche, sia i processi di riorganizzazione».
Vengono mantenute tutte le forme contrattuali precarie oggi esistenti. Gli unici interventi legislativi riguardano l’introduzione di norme volte a «incentivare l’impiego virtuoso dell’istituto». La flessibilità in uscita – la «libertà di licenziare», così evitiamo la retorica – viene ampliata. L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori si applica solo ai licenziamenti discriminatori. E’ escluso il reintegro per i licenziamenti per motivi economici che, anche se ritenuti illegittimi, prevedono solo un indennizzo deciso dal giudice. Si potrà licenziare sempre col corrispettivo di un certo numero di mensilità (da 15 a 27).
Per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali, la novità principale riguarda l’Assicurazione sociale per l’Impiego (Aspi), definita universale. Il paragrafo successivo chiarisce però che i co.co.co. ne sono esclusi. Sulla questione donne, l’unico aspetto veramente positivo è l’introduzione di modalità che contrastano le «dimissioni in bianco». Anche il congedo di paternità obbligatorio sarebbe una piacevole novità , se non fosse limitato a 3 giorni continuativi nei primi 5 mesi di vita del figlio. Difficile pensare che un tempo così limitato favorisca «una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia». Si presentano ancora una volta «misure volte a favorire la conciliazione vita-lavoro» (in questo caso il diritto a una baby-sitter pagata dall’Inps) dove la conciliazione è declinata sempre e solo al femminile. Chissà come mai si assume sempre il vincolo che i padri non debbano conciliare, mai.
Non si può capire la riforma se non la si inserisce nel quadro della teoria economica che è tornata a dominare dalla fine degli anni ’80, la teoria neoclassica più o meno imbastardita. Tra i suoi «fondamentali» vi è la supply side economics. La crescita economica va sostenuta con politiche economiche che agiscono sul lato dell’offerta (produttori di merci o servizi finanziari). Deregolamentando i mercati, creando un sistema fiscale poco progressivo che favorisce redditi alti e capital gains, cancellando le tutele dei lavoratori, si sostiene l’iniziativa privata, considerata l’unica fonte di ricchezza. Non stupisce che la disoccupazione sia considerata sempre e solo qualcosa la cui causa sta in fondo dal lato dell’offerta di lavoro. Se il lavoratore è disoccupato è perché non si adegua alle insindacabili esigenze delle imprese (costo del lavoro, qualifiche, diritti, ecc). La domanda di lavoro non è mai ritenuta responsabile del livello e della qualità dell’occupazione. Solo se le imprese sono libere nel gestire la manodopera in funzione dell’andamento del ciclo economico, saranno in grado di creare occupazione.
Si era molto parlato, a proposito della riforma, dell’introduzione di una flexicurity, per accordare le esigenze di flessibilità delle imprese con quelle di sicurezza dei lavoratori. Su questa strada si sarebbe dovuto mantenere l’art. 18 e ridurre le tipologie contrattuali atipiche a una sola, come suggerito dal contratto unico a tutele progressive di Boeri e Garibaldi: questi interventi avrebbero dovuto essere accompagnati da un’estensione universalistica degli ammortizzatori sociali. Così non è. L’unica novità , che dovrebbe andare in quella direzione, è rendere il lavoro atipico più costoso di quello tipico. Poiché questo avviene con un aumento del cuneo fiscale, gli stessi Boeri e Garibaldi concludono che «il maggior carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi» (La Repubblica, 22 marzo).
In un’ottica di classe il giudizio non può che essere negativo. La flexicurity ha più lati oscuri che positivi. La flessibilità si rivela precarietà : l’insicurezza del posto di lavoro aggrava la ricattabilità della classe lavoratrice, rendendo ancor meno contestabile il comando del capitale dentro il processo capitalistico di lavoro.
La poca sicurezza in più, viste l’evasione ed elusione fiscale, viene dai (pochi) lavoratori che hanno un’occupazione che pagano gli ammortizzatori sociali ai (tanti) disoccupati. Una partita di giro tutta interna alla classe lavoratrice. Un obiettivo solo la riforma l’ha raggiunto: quello di «ridistribuire più equamente le tutele dell’impiego» eliminando le disuguaglianze tra «garantiti» e «precari». Ma ciò avviene grazie allo smantellamento progressivo di diritti e tutele per tutti, estendendo l’area dell’incertezza, e quindi della precarietà di fatto estesa al lavoro a tempo indeterminato.
Come ha sostenuto Riccardo Bellofiore (cfr: La disintegrazione europea e la Grande Recessione 2.0, scaricabile da FB: Economisti di classe), il governo Monti supera così la dialettica neo-liberismo e social-liberismo, mettendo insieme gli aspetti liberisti dell’uno e dell’altro: attacco al lavoro e al welfare più disciplina del bilancio pubblico e liberalizzazioni. Che il primo governo liberista a tutto tondo riesca nei suoi intenti è dubbio, a meno che non venga salvato da una dubbia ripresa mondiale. L’austerità spingerà l’economia a una depressione prolungata, sicché la «riforma» risolverà il conflitto generazionale togliendo lavoro agli anziani per darne di meno ai giovani, accomunandoli nella miseria. Quanto invero c’è da aspettarsi in una crisi capitalistica: la svalorizzazione selvaggia del lavoro, e un gioco al massacro all’interno della classa lavoratrice. Una via d’uscita dalla crisi lunga, e che passa per l’inferno. Il divide et impera del capitale avrà vita facile se, da subito, non si riuscirà a mettere in campo una lotta di classe unificante e all’altezza della sfida.
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