Tracce di affetti dentro l’oblio
La sorte di Alois Alzheimer fu perdere il nome proprio e trasformare il suo cognome nel nome della malattia. Omaggio imbarazzante, giacché la parola evoca una malattia terribile e occulta la biografia di un medico dotato di grande sensibilità clinica. Recentemente Peter Whitehouse ha contribuito a smitizzare l’Alzheimer come malattia terribile e in questi giorni è uscito dal Mulino un libro di Matteo Borri – Storia della malattia di Alzheimer (pp. 181, euro 16) – che mostra la collegialità e i molteplici contributi alla ricerca sulle demenze, la necessità di integrare prospettive mediche, sociali e dinamiche.
Parole che provocano
Siamo in primo luogo debitori all’opera di Konrad Maurer e Ulrike Maurer, Alzheimer, sottotitolata La vita di un medico, la carriera di una malattia (manifestolibri, pp. 286, euro 28) perché ha contribuito a liberare il Golem – come già ho avuto modo di esprimermi sulla rivista online «doppiozero» – dalla soffitta. Non c’è dubbio che Alzheimer fosse uno scrupoloso scienziato da microscopio, che aderì pienamente al motto di Griesinger: «La malattia mentale è malattia del cervello». Nel medesimo tempo fu proto-esponente della psichiatria democratica. Questo aspetto, dimenticato, emerge dal quarto capitolo del libro dei Maurer.
Alzheimer fu assunto, giovane medico, presso una clinica denominata «campo della roccia della scimmia», per via della sua collocazione, voluta e progettata da Heinrich Hoffmann. Hoffmann è l’autore di Pierino Porcospino, racconto illustrato di formazione, che descrive, com’ebbe a dire Groddeck, «il Cantico dei Cantici dell’inconscio per gli adulti».
Hoffmann introduce, con la massima larghezza di vedute, il no restraint negli ospedali psichiatrici. Prova a eliminare ogni limitazione e contenimento della libertà individuale – camicia di forza, letti di contenzione, misure violente e coercitive – dalle pratiche sanitarie, già a partire da metà Ottocento. Il nome dell’ospedale, Campo della roccia della scimmia, ha un che d’ironico, sembrano parole che provocano, sottrazione del quid terribile, inguaribile e catastrofico alla metafora della malattia mentale. Hoffmann aveva cercato un’architettura diversa, un luogo per le persone che ci abitavano (pazienti, infermieri, medici), perché potessero vivere serenamente, gioire di attività artistiche, culturali, manuali senza forzature. Ambiente curativo, non repressivo.
Quando Alzheimer giunge a Francoforte, il direttore è Emil Sioli, che accoglie l’aiuto di un medico promettente. Con Sioli il no restraint si amplia ulteriormente. Alzheimer lo aiuta a ripensare nuove forme di organizzazione degli spazi e delle attività per allargare ancor di più il clima di libertà .
La biografia dei Maurer riporta i testi da lui redatti nelle conversazioni cliniche con la sua più nota paziente, Auguste Deter. I colloqui – trascritti, analizzati e rianalizzati – mostrano il mistero della demenza sul piano fenomenologico. Mentre si leggono non si può fare a meno di ricordare l’osservazione di Foucault: «La demenza dal momento che si tratta di una malattia tardiva, che interviene da un certo numero di processi e, eventualmente, di lesioni organiche, avrà sempre un passato». Il che significa che nella demenza troveremo sempre dei resti: talvolta dei residui d’intelligenza, tal’altra tracce di delirio, ma in ogni caso qualcosa del passato di tale stato, positivo o negativo, comunque resterà ». (Foucault, Il potere psichiatrico, 6 gennaio 1974).
«”Quando si è sposata?”. “Al momento non lo so; la signora abita nello stesso corridoio”. “Quale signora?”. “La signora dove abitiamo”. Adesso chiama ad alta voce: “Signora Hensler, Signora Hensler, Signora Hensler…abita qui un gradino sotto”» (Alzheimer, 28 novembre 1901).
Le domande vengono eluse, ma le risposte non rimangono insoddisfatte, producono linee di fuga. La paziente chiama la vicina di casa, indica una relazione confidenziale. Sembra rispondere al «quando si è sposata» con «dove ho un rapporto di confidenza». Il tempo sta allo spazio, come il matrimonio alla confidenza, analogia, poesia. Mi sposai, nello spazio della confidenza.
La domanda di Dostoevskij
La malattia produce discorsi strani, che a orecchie familiari assumono senso. A una frase del padre malato reagisco con tenerezza, conforto, a volte spavento. Come con un bambino, intendo che l’elusione è significante. Gregory Bateson parla, a questo proposito, di «sillogismi in erba» («Gli uomini sono mortali, l’erba è mortale, gli uomini sono erba», sillogismo poetico).
Alzheimer mostra la presenza del passato nella demenza. Mostra l’intenzione della confidenza, l’amore del medico per la paziente, l’attenzione con cui la segue come persona, il legame che, attraverso il colloquio clinico, aiuta a mantenere Auguste in relazione con un mondo in dissolvenza. Come nello smantellamento di una scena teatrale, il mondo sfuma progressivamente davanti agli occhi. Gli studenti di medicina dovrebbero conoscere questo Alzheimer per comprendere il nucleo esistenziale del legame con il paziente.
La cura morale comincia coi tentativi terapeutici di Pinel ed Esquirol. Prevale un’intenzione educativa, oggi diremmo comportamentista; il primo obiettivo è far riconoscere al folle la propria malattia. Se riconosci che sei malato, ti possiamo curare, se non lo riconosci, ti dobbiamo curare. Nel paziente suona così: o riconosco di essere malato o lo sono. Così recita, la cito per come la ricordo, la domanda di Lebezjatnikov a Raskolnikov: «Sapete voi che a Parigi c’è un medico che cura la follia con la logica?». Mai migliore definizione fu data della cura morale. Dostoevskij, figlio di medico, conosceva la materia.
La tradizione del trattamento morale giunge fino a Charcot, si pratica l’ipnosi. Alla Salpàªtrière non sembra dare risultati clinici. La teatralità di Charcot ha più effetti sugli astanti, che assistono al suo teatro, che sulle pazienti che recitano con lui. I trattamenti delle isteriche non sono esenti da interventi repressivi e coercitivi, compressori ovarici, scosse (antesignane dell’elettroshock), restrizioni e contenzioni «terapeutiche».
Situazioni paradossali
Se è vero che i primi trattamenti psicodinamici nascono qui, ci troviamo di fronte a una situazione strana, che sconvolge un’ideologia semplicistica. Charcot, fondatore della psichiatria dinamica, usa la coercizione, trattando le pazienti in modo coatto – nell’ipnosi c’è un elemento di coazione – e Alzheimer, che potremmo a buon diritto considerare il fondatore della neurologia, tratta i pazienti con umanità e comprensione. Dove sta il mistero? La questione consiste nella ricerca del risultato clinico, nell’idea di guarigione, di far guerra e sconfiggere la malattia. Tanto più la malattia è incurabile, tanto maggiore la sua potenza metaforica, lo sconforto che produce, la sua profonda gravità . Tanto maggiore l’accanimento terapeutico, questi i paradossi di ogni trattamento morale.
«Il suo male ha un nome, ma lui si rifiuta di sentirlo. Non vuole che lo si pronunci in sua presenza. Si direbbe che gli faccia paura. Come se trascinasse sulla propria scia un corteo di fantasmi sen’anima e senza volto». Così Elie Wiesel descrive la malattia nel romanzo L’oblio. Un uomo, un ebreo di New York, Elhanan, padre del giornalista Malkiel, si accorge di avere la malattia durante una passeggiata col figlio. Qualcuno gli rivolge un saluto, lui sa di conoscere la persona, ma il nome gli sfugge. Poi ricorda, d’un tratto.
Il figlio lo conforta, senza successo: «Sono colpevole… Ecco perché vengo punito… Come il figlio di Abuja, ho guardato dove non bisognava… Ho visto compiersi un peccato… un delitto… Avrei potuto, avrei dovuto agire, gridare, urlare, picchiare… Ho dimenticato i nostri precetti e le nostre leggi che impongono all’individuo di combattere il male non appena esso appare… Ho dimenticato che non si deve mai rimanere spettatori…».
Il superfluo e il necessario
Imparare da anziani è come mangiare uva matura, oppure è come scrivere con inchiostro su carta cancellata. La malattia avanza e Elhanan si protegge dall’oblio attraverso la relazione con Malkiel. Tuttavia, anziché chiedergli di rimanere accanto a lui, gli chiede di andare lontano, presso un villaggio romeno, dove sono seppelliti gli antenati. Il ricordo di ciò ch’è stato dei suoi antenati prima della Shoah ricostruisce la memoria collettiva. Segna una conquista sociale sulla demenza individuale. Così Malkiel raggiunge il villaggio e si torva davanti a una tomba che porta il suo nome, come dinanzi alla sua morte. Il nome del nonno, scritto sulla tomba inclinata: Malkiel ben Elhanan Rosenbaum, è il suo stesso nome. Sono già morto? Perché sono qui? «Sono qui per ricordarmi di ciò che mio padre ha dimenticato».
Una volta fui invitato a partecipare a un progetto europeo tra università diverse, tutti avevamo letto L’oblio di Wiesel. Cercammo di organizzare, presso alcuni luoghi per anziani, gruppi familiari che ascoltassero dai loro parenti; ricordi, memorie. Si pensava che figli e nipoti avrebbero potuto sentire le storie delle loro origini, episodi riferiti a prima della nascita. Non si trovarono fondi. Il progetto era superfluo, il necessario per l’Alzheimer era la ricerca farmacologica. Di questa vicenda mi resta il ricordo di una tesi: Loretta Silvestrini, La malattia di Alzheimer come metafora.
Il superfluo sarebbe stato annodare il legame affettivo al ricordo lontano, frammentario, opaco, di una donna o di un uomo, come se una cosa bella potesse essere una gioia per sempre.
Poi osservai un video in cui la regista Silvia Birozzo conduceva un gruppo di pazienti con la malattia di Alzheimer. Salone, il video emana una musica d’altri tempi, a volume moderato, le persone sorridono. Slow fox trot, walzer lento, milonga, liscio, lento. Personale sanitario con sguardo imbarazzato, fuori ruolo. Le attrici invitano a danzare; donne e uomini accettano, altri si alzano e danzano soli, s’invitano tra loro. Qualcuno se ne va. Il personale non danza, non sa come muoversi, alcuni seguono chi se ne va. Si pensa che serva a poco. Finito, tutti dimenticano l’accaduto e riprendono a condursi come prima, nessun risultato.
Frammenti di microstoria
Alois Alzheimer non avrebbe reagito così, avrebbe compreso che la sfida della malattia non sta nell’impossibilità di guarirla, che tutto il resto è contenimento: mangiare, dormire, prendere le medicine. La sfida sta nel viverla, nel darle un senso. Il senso della malattia di Elhanan, l’uomo del romanzo di Wiesel, è il recupero della memoria del popolo ebreo attraverso il figlio Malkiel, che gli sopravvivrà , che ricorderà il nome dei suoi antenati, la storia del suo popolo, il dettaglio di quella famiglia. Frammento di microstoria che compone il tutto di qualcosa che non si può dimenticare.
Alzheimer, la persona, non è il Golem di una malattia terribile. Piuttosto è un medico che ha saputo coniugare scienza e fenomenologia, studio dei tessuti e accesso al mondo di Auguste Deter, in un orizzonte di libertà e rispetto.
Un’idea altruistica
della professione
Quando nel dicembre 1915, nel pieno della prima guerra mondiale, Aloysius Alzheimer morì cinquantunenne, probabilmente in seguito ai postumi di un’infezione da streptococco contratta tre anni prima, i suoi colleghi all’Università slesiana Federico Guglielmo di Breslavia lo ricordarono sottolineando non soltanto le sue eccezionali doti di scienziato, ma anche la straordinaria qualità umana che lo aveva contraddistinto in tutta la sua esperienza professionale: «Nel defunto – scrissero infatti – la scienza medica perde uno dei suoi migliori studiosi, eccellente per i suoi profondi lavori; l’infelice schiera degli uomini colpiti dalla demenza e dalla malattia nervosa perde un medico paternamente preoccupato e capace, l’ospedale militare di guerra un amico dei soldati infiammato dall’ideale e dall’altruistica concezione della sua professione».
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