by Editore | 15 Marzo 2012 7:32
Sul presupposto di partenza del Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris (Laterza, pagg. 113, euro 15) – il cui contenuto è già ben noto ai lettori di queste pagine – si può senz’altro convenire. Si tratta della convinzione che alla fine del ventesimo secolo la filosofia contemporanea abbia ruotato intorno al proprio asse, assumendo una diversa inclinazione. Quella che ha mostrato la corda è l’eredità filosofica della cosiddetta “svolta linguistica” dei primi decenni del Novecento, incentrata intorno al primato trascendentale del linguaggio. Che a tale primato si attribuisse una connotazione analitica come in area anglosassone, ermeneutica in Germania o decostruttiva in Francia, l’idea che sottintendeva tale concezione era il carattere linguistico dell’intera realtà . Da qui una conseguenza di tipo dissolutivo, che investiva non solo il reale, risolto in una serie di narrazioni prive di riscontro oggettivo, ma anche la filosofia stessa, dichiarata dai suoi stessi esponenti finita o quantomeno in perenne crisi. Sfuggendole in linea di principio la presa sull’oggetto, essa non poteva rivolgere la propria attitudine critica che a se stessa in una sorta di perenne autoconfutazione. In queste condizioni, si può dire, essa riusciva ad affermarsi solo negandosi. Piuttosto che elaborare – come suo compito – nuovi concetti, si limitava a smontarli, in una proliferazione di domande senza risposta. È a questa situazione, per così dire bloccata, che il Manifesto intende reagire.
Ma la tesi più suggestiva di Ferraris è che la necessità di muovere in una direzione diametralmente opposta – quella appunto di un “nuovo realismo” – si origini non dal fallimento, quanto dal successo della prospettiva postmoderna del primato dell’interpretazione sui fatti. Il superamento dell’oggettività – già proclamato da Nietzsche, fatto proprio da Heidegger e riproposto diversamente da Foucault – non avrebbe portato ad un’emancipazione dai vincoli oppressivi di una verità totale, ma alla configurazione di quella società dello spettacolo il cui frutto avvelenato è il populismo mediatico diffuso nelle nostre democrazie. Da qui l’esigenza che, dall’inizio degli anni Novanta, ha condotto l’autore ad abbandonare il paradigma ermeneutico a favore di un confronto diretto con il reale sul triplice terreno dell’estetica, della teoria della conoscenza e dell’ontologia sociale.
Questa la prospettiva del libro, proposta con l’intelligenza brillante e caustica cui Ferraris ci ha da tempo abituati. Molte le pagine che risultano convincenti, e anche equilibrate, a favore di quello che egli stesso definisce un “realismo modesto”, ancorato alla distinzione tra epistemologia ed ontologia. Realismo, egli sostiene, non equivale né a scientismo, né, tantomeno, al vecchio positivismo. Esso non nega che vi siano oggetti socialmente costruiti, ma solo che tutti lo siano. Così come non contiene alcuna apologia dello stato di cose esistente. Solamente che, per poterlo criticare, è necessario prima conoscerlo “oggettivamente”. Accertare qualcosa nella sua radice ontologica non vuol dire, per questo, accettarla supinamente. Anzi è la condizione preliminare per poterla, eventualmente, trasformare. I controeffetti di slogan apparentemente liberatori come quello dell’immaginazione al potere sono del resto sotto gli occhi di tutti: spesso sono stati proprio essi ad impedire, nel loro entusiasmo utopistico, un intervento critico nei confronti della realtà .
Detto questo, la tesi profilata dall’autore si presta ad una serie di critiche e di domande che aspettano una risposta. Innanzitutto l’idea che oggi sarebbe venuto meno ogni effetto impositivo da parte dei dispositivi di verità è tutta da provare. La battaglia, dagli esiti tuttora incerti, contro il fondamentalismo cattolico, per esempio sul piano della bioetica, lascia pensare piuttosto il contrario. Così come l’ascrizione, operata da Ferraris, della rozza ideologia di Bush, e dei suoi consiglieri neo-con, al pensiero postmoderno può lasciare interdetto il lettore. Ed è, poi, vero che la semantica del desiderio, connessa alle ragioni del corpo, riconduce all’arcaico, alla infanzia, alle Madri? Come osserverebbe l’intera scuola lacaniana, Ferraris sta confondendo il desiderio – sempre connesso alla legge e al limite che questa impone – con il godimento. Non a caso le nostra società soffrono di una mancanza crescente di desiderio, quanto più sono sottoposte all’imperativo di godere senza limiti.
Ma la questione di fondo che la prospettiva di Ferraris apre è per me ancora un’altra. Ed è relativa al superamento della svolta linguistica di cui si diceva. Il realismo, per quanto nuovo, ne è davvero fuori o non è che lo spostamento dall’una all’altra della sue polarità interne? Non riprende, con altri argomenti, la polemica che Carnap aveva, da un punto di vista logico-realistico, rivolto al decostruzionismo di Heidegger? Non resta dentro il perimetro definito dall’avversario che combatte? Detto in altre parole, la rivendicazione dell’autonomia dell’oggetto presuppone necessariamente, come contraltare logico, quella del soggetto che pure intende contestare. Io credo si tratti di capire qual è il trascendentale, vale a dire la categoria costitutiva, che, nel pensiero e nella realtà – difficilmente separabili, visto che il pensiero non soltanto nasce sempre dentro una data realtà , ma a sua volta produce realtà – ha sostituito il linguaggio negli ultimi decenni, se non ancora prima. La risposta che una parte significativa della cultura filosofica internazionale ha dato a questa domanda è che si tratta della categoria di vita, nella sua relazione complessa con la politica e la storia.
Cosa deve intendersi qui per “vita”? Non certo un impulso irrazionale o, tantomeno, una forma mascherata di volontà di potenza, ma esattamente il superamento di quella contrapposizione tra soggetto e oggetto che ha condizionato la filosofia postkantiana trattenendola al di qua di una certa soglia epistemica. Da questo punto di vista autori come Nietzsche, e tanto più Foucault, indicano una direzione in singolare risonanza con quella linea di pensiero che è stata definita Italian Theory. Si tratta della rottura delle classiche bipolarità tra soggetto e oggetto, natura e storia, prassi e tecnica. Oggi, sia nel campo della filosofia continentale che in quello della filosofia analitica, i programmi di ricerca più promettenti sono proprio quelli situati nella zona di indistinzione, o di oscillazione, tra poli che un tempo apparivano reciprocamente incompatibili. Mai come in questa stagione quelle che sembrano, e di fatto sono, invariabili della natura umana vengono sussunte e, per così dire, mese al lavoro, storicizzate, modificate, dalla tecnica in una forma difficilmente riducibile al contrasto tra interno ed esterno o soggetto e oggetto.
L’individuazione del rapporto tra potere e sapere – implicita, ad esempio, nel concetto foucaultiano di “dispositivo”, ma anche in quello, gramsciano, di “egemonia” – non ha nulla a che vedere con l’idea che “il potere ha sempre ragione”, o con la proclamazione retorica di un contropotere, se non altro perché ogni forma di potere implica di per sé una resistenza. Ciò non solo non è estraneo ad un atteggiamento realistico – è anzi al centro del grande realismo politico da Machiavelli in poi – ma consente di ripensare la soggettività in chiave conflittuale. Non esiste un soggetto unico, contrapposto al proprio oggetto. Il confronto – ed anche lo scontro – che insieme unisce e divide gli uomini verte sulla relazione insolubile di realtà e pensiero, natura e storia, tecnica e vita. Rispetto a tutti questi problemi, ovviamente aperti, il Manifesto di Ferraris permette di aprire una discussione franca e vivace.
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